La «rottura» della cittadinanza  

 
SINDROME EUROPEA
L'Ue che conosciamo è  solo un'isola di benessere per élite. Per uscire 
dalle sabbie mobili del  Vecchio Continente è necessaria una «campagna 
costituente» che sappia  trasformare le istituzioni in forze alternative
 che non siano semplici  assemblaggi di poteri
Étienne Balibar ha  perfettamente ragione («Una crisi esplosiva di 
sistema», il manifesto  del 4 maggio): dobbiamo «porre da subito il 
problema di una rifondazione  dell'Unione, in vista della costruzione di
 un'altra Europa». Dovremmo  essergli grati per aver messo in corsivo 
sia «da subito» sia  «rifondazione». Si deve agire ora, e quest'azione 
non può dare per  scontata né l'esistenza delle forze politiche da 
mobilitare, né le  coalizioni sociali capaci di sostenere una simile 
mobilitazione, né le  energie intellettuali da attivare, né i canali e 
le strutture  istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di  questi livelli, una campagna costituente, che 
sappia trasformare forze e  istituzioni esistenti, crearne di nuove, 
incanalare lotte e  «indignazione» sociali verso l'obiettivo di 
«costruire un'altra Europa»,  producendo al tempo stesso nuovi linguaggi
 politici e immaginari  culturali. Una campagna costituente, dicevo: non
 una campagna per  un'«assemblea costituente», per la quale mancano 
attualmente tutte le  condizioni. Penso a un progetto di durata 
decennale, in grado di  reinventare radicalmente lo spazio europeo, la 
sua posizione in un mondo  tumultuosamente in trasformazione, le sue 
istituzioni e la sua  cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione 
di libertà e  uguaglianza. È necessario aggiungere che una simile 
reinvenzione non può  che essere allo stesso tempo una reinvenzione 
della sinistra in Europa?  Se la sinistra ha un futuro in questa parte 
del mondo, sono convinto  che questo futuro non possa che essere 
costruito su scala continentale.
Dovremmo  essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di 
fronte a cui  ci troviamo oggi in Europa. È evidente che la messa in 
discussione di  consolidate gerarchie spaziali e l'affermazione di nuove
 geografie dello  sviluppo e dell'accumulazione capitalistica figurano 
in primo piano tra  le tendenze che sottendono l'attuale crisi economica
 globale. Nuovi  regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo stanno
 prendendo forma  in molte parti del pianeta, una sorta di «deriva dei 
continenti» (per  riprendere l'immagine geologica impiegata da Russell 
Banks nel famoso  romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. 
All'interno di  questi processi, l'Europa è sempre più 
«provincializzata», anche se non  necessariamente nel senso suggerito da
 Dipesh Chakrabarty nel suo  importante libro del 2000.
Limiti dell'appartenenza
Di per sé, non  è un male. Tutt'altro. Ma per cogliere e interpretare 
politicamente le  opportunità connesse a questa provincializzazione 
dell'Europa abbiamo  bisogno di una scala continentale di azione 
politica e di governo.  Abbiamo bisogno di un'Europa politica. Al di 
fuori di quest'ultima, la  prospettiva è quella di un'Europa ridotta a 
qualche isola di benessere e  ricchezza in un mare di povertà e 
privazione: cosa che abbiamo già  iniziato a sperimentare nel Sud del 
nostro continente. Inoltre solo su  scala continentale è possibile 
immaginare la costruzione di un rapporto  di forza favorevole con il 
capitale finanziario, il cui dominio  all'interno del capitalismo 
contemporaneo è alla radice della crisi di  ogni mediazione politica 
(ovvero della democrazia) oggi così evidente in  Europa.
Non è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni  dello 
sguardo «geopolitico» sulla questione europea (il che  significherebbe 
in particolare discutere su basi completamente nuove il  problema delle 
relazioni tra Europa e Stati Uniti). Ma è importante  tenere a mente la 
pertinenza degli argomenti qui appena evocati per  qualsiasi indagine 
critica sull'attuale situazione europea. Nel seguito  di questo breve 
intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su  qualcos'altro. Parlare
 di una campagna costituente significa prendere in  considerazione la 
necessità di una rottura allo scopo di aprire la via a  un'«altra 
Europa».
Penso sia importante essere consapevoli, in  questo senso di quanto 
profonda sia la rottura che è già stata prodotta  all'interno della 
stessa struttura delle istituzioni europee nel  contesto della crisi 
globale. Faccio parte di coloro che a partire dalla  metà degli anni 
Novanta hanno cercato di lavorare «dentro e contro» la  cittadinanza 
europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i  movimenti e 
le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare  in modo 
sbrigativo quell'esperienza, che è stata anche accompagnata da  
importanti dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i  
confini della concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo  
stesso, non si può evitare di fare un bilancio delle radicali  
trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito la cittadinanza  
europea. Sia dal punto di vista dell'«appartenenza» che  
dell'architettura istituzionale - per richiamare i due punti di vista  
prevalenti negli studi sull'argomento - ci troviamo di fronte a una  
profonda crisi della cittadinanza europea.
Per dirla brutalmente,  questo concetto è stato spogliato di qualsiasi 
significato «positivo» e  «progressivo» agli occhi di una vasta 
maggioranza della popolazione  europea, e in particolare in Paesi come 
la Grecia, la Spagna, l'Italia  essa ha finito per essere ampiamente 
identificata con la continuità  delle politiche di austerity e con il 
loro carattere «punitivo». Allo  stesso tempo, come molti giuristi hanno
 notato, l'intero progetto di  «integrazione attraverso il diritto», 
tratto distintivo  dell'integrazione europea nel suo complesso, si è 
trovato di fronte ai  propri limiti e alle proprie contraddizioni degli 
ultimi anni.  L'equilibrio tra un sovra-nazionalismo giuridico e i 
processi politici  di negoziazione, alla base di quel progetto, è stato 
destabilizzato: la  processualità giuridica è stata sempre più 
nettamente caratterizzata da  una dinamica autonoma, collegandosi in 
modi inediti con gli apparati  burocratici europei e con una 
molteplicità di gruppi d'interesse.
Ne è  emersa la cristallizzazione di un nuovo «assemblaggio» di potere 
capace  di dettare standard e norme che restringono sempre di più il 
campo  d'azione di qualsivoglia politica («europea» non meno che 
«nazionale»).  Con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di 
Stabilità, la  camicia di forza della stabilità monetaria, i programmi 
di disciplina  fiscale e la continuità dell'austerity si sono 
ulteriormente rafforzati,  consolidando la posizione (e l'indipendenza) 
della Banca Centrale  Europea al centro di questo «assemblaggio» di 
potere.
È difficile  immaginare un'altra Europa politica senza porre l'accento 
sulla  necessità di strappare questa camicia di forza e di spezzare 
questo  «assemblaggio» di potere. «Default democratico» (Giandomenico 
Majone),  «crisi di legittimità» (Fritz Scharpf), ulteriore 
rafforzamento della  natura «elitaria» e «post-democratica» dell'Ue 
(Wofgang Streeck) sono  alcune delle formule che circolano nei dibattiti
 sulla crisi europea nel  tentativo di cogliere le implicazioni della 
rottura a cui si è fatto  cenno - della soluzione di continuità che si è
 prodotta all'interno del  processo di integrazione.
Lavoro vivo
Se nel concetto moderno di  democrazia, per riprendere i termini 
proposti in un celebre saggio di  Étienne Balibar, è iscritta una 
dialettica tra la dimensione  «insurrezionale» e la dimensione 
«costituzionale» della politica, si  deve riconoscere che oggi in Europa
 (sia a livello nazionale sia a  livello di Ue) questa dialettica sembra
 essere interrotta. Quel che ne  consegue è una divisione che attraversa
 gli stessi concetti di politica e  democrazia. I loro momenti 
conflittuali e «insurrezionali» continuano a  riprodursi all'interno 
delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non  trovano nessun tipo di
 feedback all'interno delle istanze governative e  «costituzionali». 
Quello che rimane a livello nazionale della  «democrazia conflittuale» 
(citando nuovamente una formula di Balibar) su  cui si è fondato lo 
sviluppo dello Stato sociale democratico è al  momento in fase di 
smantellamento o comunque sotto attacco, mentre a  livello europeo non 
c'è nessun tentativo di compensare questa «perdita»  con l'edificazione 
di nuovi sistemi di welfare su scala continentale.  Anche quanti avevano
 creduto che il Trattato di Maastricht avrebbe posto  le basi per uno 
«scambio» di questo genere sono oggi costretti a  ricredersi.
Inutile dire che questo tema dovrebbe essere prioritario  nella 
«campagna costituente» che si tratta di avviare. E non è possibile  
immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello europeo  
secondo il modello del welfare state «storico», quale lo abbiamo  
conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Troppe
  cose sono cambiate, e radicalmente, nella struttura del capitalismo e 
 nella composizione di ciò che, con un concetto marxiano, possiamo  
chiamare il «lavoro vivo» contemporaneo. Basti pensare ai dibattiti  
sulla precarietà, sulle nuove caratteristiche delle migrazioni o, per  
limitarci a un unico ulteriore esempio, sulle trasformazioni della  
struttura famigliare e dei rapporti tra i generi. Attorno a queste e  
altre questioni, si sono sviluppati con straordinaria continuità  
movimenti e lotte sociali in tutto il continente: nessuna campagna per  
un'«altra Europa» è immaginabile senza un'intensificazione e un sempre  
maggiore coordinamento di queste lotte e di questi movimenti.
Lo scoglio della sinistra
«Non  essere stata in grado di definire e di promuovere una solidarietà 
 europea è la ragione del fallimento della sinistra in Europa», scrive 
Bo  Strath commentando l'articolo di Balibar (cfr.
 www.opendemocracy.net/)
.  Non potrei essere più d'accordo. Vorrei tuttavia aggiungere che 
questo  «fallimento» è a sua volta legato alla miopia della sinistra di 
fronte  alle profonde trasformazioni subite dal lavoro, nonché alle  
rivendicazioni emergenti da una composizione sociale anch'essa  
profondamente innovata. L'Europa può avere un senso solo se la si  
costruisce come uno spazio all'interno del quale queste rivendicazioni  
possano essere articolate in un progetto politico capace di essere al  
contempo radicale ed efficace. Solo se diviene uno spazio in cui la  
lotta contro la povertà, lo sfruttamento e la discriminazione ha più  
possibilità di successo, in cui è più facile distruggere la paura  
inoculata e disseminata dalla crisi all'interno del tessuto sociale.  
Lottare contro il «ritorno dei nazionalismi» e l'ascesa di nuove forme  
di fascismo in Europa significa prima di tutto lottare per sradicare  
questa paura.
Quando parlo di una «campagna costituente» non penso a  un'unica 
campagna organizzata centralmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è  in 
primo luogo forgiare uno «spirito costituente» attraverso una  
molteplicità d'iniziative, articolate su diversi livelli e capaci di  
investire diversi luoghi e forum (dalla mobilitazione di piazza al  
Parlamento europeo). Ecco perché, ottimisticamente forse, scrivevo di un
  progetto di durata decennale. Mi rendo perfettamente conto che le  
prospettive per un progetto del genere, in questo preciso momento, non  
appaiono particolarmente incoraggianti. Esso dipende, per citare ancora 
 l'articolo di Balibar da cui ho preso le mosse, da «molte condizioni,  
tutte difficili e il cui adempimento è improbabile».
È un monito  essenziale rispetto alla difficoltà del compito che ci 
spetta: ma nulla  dice (e Balibar lo sottolinea) contro la realistica 
necessità di farsene  collettivamente carico. In fin dei conti potremmo 
concludere  ricordando, con un po' di necessaria ironia, le parole di 
Max Weber, uno  che di «realismo politico» se ne intendeva: «è 
senz'altro vero che non  si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non
 si tentasse sempre di  nuovo l'impossibile».
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SCAFFALE
 Da OpenDemocracy ai movimenti
Il testo di Etienne Balibar è stato  pubblicato inizialmente sul 
quotidiano francese «Liberation». Il giorno  dopo, d'accordo con 
l'autore, è stato pubblicato sul «manifesto» (4  maggio). 
Successivamente è uscito anche su quotidiani tedeschi, greci,  spagnoli,
 mentre il sito «OpenDemocracy» ha aperto una sessione dedicati  ai temi
 sviluppati dal filosofo francese (l'articolo di Sandro Mezzadra  ha 
aperto questa nuova «sezione» del sito dedicata all'Europa). In  
quell'articolo Balibar illustrava lo stato dell'Unione europea dopo la  
stagione del governo dei tecnici (qualificata dal filosofo francese come
  una «rivoluzione dall'alto»). Balibar invita a prendere nuovamente le 
 fila di un ordine del discorso «europeista» (ma sarebbe più corretto  
chiamarlo come un «cosmopolitismo radicale») che sfugga alla gabbia  
d'acciaio dell'austerità costruita dalla troika per mettere in salvo un 
 neoliberismo in crisi di legittimità.