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lunedì 2 luglio 2012

ACCORDO CASINI D'ALEMA :MONTI


Accordo Casini e D’Alema: Monti a Palazzo Chigi nel 2013. E Prodi? Al Quirinale  


resizer e1341214842656 Accordo Casini e D’Alema: Monti a Palazzo Chigi nel 2013. E Prodi? Al QuirinalePer l’Italia si prospetta un periodo infernale. Il regime di centrosinistra si prepara a prendere il potere e imporre agli italiani la sua aberrante filosofia politica. Nel trionfo della disinformazione e del disinteresse italico, il Governo di Bersani & C. è pronto a “svendere” l’Italia agli immigrati e ai banchieri, che se la spartiranno come meglio credono.
Il tutto con la complicità di Casini, che già pensa di fare l’alleanza con il PD. Il motivo è chiaro: da buon democristiano qual è, Pierferdy ha subodorato che le chance del PD di “vincere” le prossime elezioni sono decisamente più alte di quelle del centrodestra. Perciò, siccome il potere logora chi non ce l’ha, ecco che l’UDC ha fatto la sua scelta: sta con il possibile vincitore. Il che la dice lunga sulla coerenza politica di questo partito.
Il collante in questa anomala (mica poi tanto) alleanza sarà Mario Monti, ufficialmente “moderato”, ma ufficiosamente qualcosa di diverso: referente economico/politico dei poteri forti italici, europei e mondiali.
Ecco dunque la famosa quadratura del cerchio. Mario Monti – supportato e sponsorizzato da Casini – farà il Premier e proseguirà con le sue politiche “europeiste” e “mondialiste”, mentre al Quirinale ci finirà per l’ennesima volta un esponente del centrosinistra (dopo Scalfaro, Ciampi e Napolitano): Romano Prodi. Collega e amico di Monti, nonché pure lui referente di quei poteri forti europei e mondiali che tanto danno hanno creato al nostro paese.
E chi ha veramente a cuore l’identità e gli interessi degli italiani? Per sua colpa, finirà all’opposizione, a starnazzare di valori e identità mentre i sinistri e i poteri forti demoliranno giorno dopo giorno il nostro paese, introducendo norme e leggi che non faranno altro che favorire l’immigrazione e la demolizione dei principi sui quali si fonda la cultura italiana.
Sarà un brutto periodo per il nostro paese, o almeno per quello che ne rimarrà. Dico solo che se verrà attuato il minimo del programma che la sinistra ha in mente per l’Italia, non solo non usciremo più dalla recessione, ma si aggraverà la deindustrializzazione e la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi terzi, e nel mentre si accentuerà l’immigrazione clandestina, attratta dalla facile cittadinanza e dai facili permessi di soggiorno.
Verremo invasi e il nostro paese diventerà più povero e invivibile. La destra si svegli e si svegli prima che sia troppo tardi!

DICHIARAZIONE CONGIUNTA SYRIZA

DICHIARAZIONE CONGIUNTA SYRIZA, PRC E ALTRE FORZE SINISTRA EUROPEA CONTRO L'EUROPA DELLE BANCHE

  

CRISI – VERTICE UE, I LEADER DELLA SINISTRA EUROPEA: «SOLO LE BANCHE ESCONO VITTORIOSE DAL SUMMIT EUROPEO» Dichiarazione congiunta di Pierre Laurent, segretario nazionale del Partito comunista francese (Francia) e presidente del partito della Sinistra Europea, Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, Alexis Tsipras, presidente di Syriza (Grecia) e vice presidente del partito della Sinistra Europea, Cayo Lara, portavoce di Izquierda Unida (Spagna), Jose-Luis Centella, segretario generale del PCE (Spagna), Katja Kipping & Bernd Riexinger, co-presidenti di Die Linke (Germania):
«I capi di Stato dei nostri paesi di ritorno dal vertice UE hanno dichiarato a gran voce che hanno strappato delle vittorie per i popoli, delle flessioni da parte della Cancelliera Merkel, di Mario Draghi o di Jean-Claude Junker. Avrebbero per la 19^ volta dall'inizio della crisi, "salvato l'Europa". Francois Hollande ha dichiarato persino che l’Europa si è “riorientata” nella giusta direzione.
Questa è pubblicità ingannevole. Il patto di bilancio (fiscal compact) resta intatto. Non c’è stata alcuna "rinegoziazione" e la componente di crescita promossa da Francois Hollande non ha alcun valore legale. Diretto o indiretto, finanziato dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità) o no, il così detto "aiuto finanziario" sarà ancora una volta pagato interamente dai cittadini europei, attraverso tagli di bilancio e attacchi ai diritti dei lavoratori. Tutte le disposizioni adottate in nome della solidarietà con l'Italia e la Spagna sono solo misure di socializzazione delle perdite. Ciò significherà anche una perdita della sovranità dei popoli e il declino della democrazia parlamentare. La verità è che i negoziati nell'Ue liberale sono a 27 ma a vincere sono sempre le banche. Facciamo appello a tutti gli uomini e le donne di sinistra, a tutti gli eletti che siedono nei parlamenti affinchè si mobilitino per impedire la ratifica di questo patto fatale nei nostri paesi. Solo una rifondazione dell'Ue può permettere un’uscita dalla crisi. Continueremo a ripeterlo: l'austerità porta la recessione. Non ci può essere crescita in questo quadro.

Noi proponiamo un'alternativa:
· una soluzione europea per il debito pubblico esistente, insostenibile, che proponga la sua decisiva riduzione;
· cambiare il ruolo e i compiti della Bce, per favorire la creazione di occupazione e la formazione, non gli speculatori;

· creare una nuova istituzione: una banca pubblica europea, finanziata dalla Bce e dalla tassa sulle transazioni finanziarie, i cui fondi siano utilizzati esclusivamente per promuovere gli investimenti pubblici nei servizi pubblici e sviluppo industriale sostenibile;


· uniformare al livello più alto i diritti dei lavoratori e tutti i diritti sociali».

LA MANO DELLO STATO


La mano che arraffa: quella dello stato 

Per poter valutare l’espansione senza precedenti che lo Stato democratico moderno ha registrato in Europa, è utile ricordare l’affinità storica tra due movimenti che emersero alla sua nascita: il liberalismo classico e l’anarchismo. Entrambi questi movimenti furono motivati dall’ipotesi, rivelatasi poi errata, che il mondo si stesse incamminando verso un’era di indebolimento dello Stato. Ma mentre il liberalismo propendeva per uno stato minimo che governasse i cittadini in modo quasi impercettibile, lasciando loro la libertà di condurre i loro affari in  santa pace, l’anarchismo, al contrario, auspicava la dissoluzione totale dello Stato.
Dietro questi due movimenti si celava una speranza tipica del Novecento europeo: che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarebbe ben presto giunto al capolinea. In un caso, ciò sarebbe originato dall’eliminazione della predazione parassitaria esercitata dalle classi improduttive, quali la nobiltà e il clero. Nell’altro caso, la chiave di volta era stata individuata nel processo di riorganizzazione delle tradizionali classi sociali, che si sarebbero costituite in piccoli gruppi autosufficienti. Ma la storia politica del ventesimo secolo, e non solamente nel corso delle sue derive totalitarie, si è dimostrata del tutto inclemente, tanto con il  liberalismo classico, quanto con l’anarchismo. Lo Stato moderno democratico a poco a poco si è trasformato nell’attuale “Stato debitore”: nel volgere di un secolo, il processo di metastasi ha dato luogo a un mostro colossale, un mostro che respira e sputa fuori i soldi.
Questa metamorfosi è stata la risultante, soprattutto, di un prodigioso allargamento della base imponibile, specie in forza dell’introduzione dell’imposta progressiva sul reddito. Questa imposta è l’equivalente funzionale dell’ espropriazione socialista. Ma capace di garantire, in più, il notevole vantaggio di essere reiterata di anno in anno, almeno in tutti i quei casi in il soggetto non risulti dissanguato dal salasso dell’anno precedente (Per avere un’idea della tolleranza dei cittadini del giorno d’oggi, basti ricordare che quando l’imposta sul reddito fu introdotta, per la prima volta,  in Inghilterra, con una pressione del 5 per cento, la regina Vittoria era seriamente preoccupata del fatto che ciò avrebbe rischiato di oltrepassare ogni limite tollerabile. Da quel giorno, ne è passata di acqua sotto i ponti: e siamo ormai assuefatti all’idea che una manciata di cittadini produttivi debba  necessariamente fornire, con le loro tasse, più della metà del gettito sul reddito nazionale).
Quando questo prelievo forzoso si combina con una lunga batteria di ulteriori tasse e imposte, che vanno ad incidere soprattutto sui consumatori, si origina un risultato sorprendente: ogni anno, gli Stati moderni rivendicano la metà dei proventi economici generati dalle loro classi produttive e li affidano in consegna agli esattori delle tasse. E ciononostante, queste classi produttive non tentano di rimediare alla loro situazione  ricorrendo alla sola reazione che appare come la più ovvia e naturale: una civile rivolta fiscale! Questa totale ed assoluta sottomissione si configura effettivamente, [per i governanti, ndt], come un formidabile successo politico, che avrebbe fatto cadere in deliquio  il ministro delle finanze di qualsiasi sovrano.
Rifacendoci a queste considerazioni, possiamo ben capire che la domanda che molti osservatori europei continuano a formulare durante l’attuale crisi economica – “il capitalismo ha un futuro?”, è del tutto mal riposta. In realtà, quello in cui ci tocca vivere non è affatto un  sistema capitalistico: ma è una forma di  ibrido semi-socialista che gli europei, con molto tatto, definiscono “economia sociale di mercato”. La mano avida dello Stato cede parte del bottino soprattutto per placare l’apparente interesse pubblico, finanziando attività inutili e prive di senso  in nome della “giustizia sociale”.
Così, lo sfruttamento diretto ed egoistico dell’epoca feudale è stato trasformato, nell’era moderna, in un  stato,  giuridicamente vincolato e quasi disinteressato, di totale cleptocrazia. Oggi, un ministro delle finanze è una sorta di Robin Hood che ha prestato fedeltà a un giuramento costituzionale. La capacità che caratterizza il Tesoro, di arraffare il bottino con la coscienza perfettamente pulita, è legittimata, tanto da un punto di vista teorico quanto nella pratica, dall’affidamento che si ripone nell’incontestabile utilità dello Stato nel mantenere la pace sociale, per non parlare di tutti gli altri vantaggi che si vuole esso fornisca (In tutto questo, la corruzione rimane un fattore del tutto irrisorio… Per comprovare quello che sto dicendo, basti solo pensare alla situazione della Russia post-comunista, dove un ordinario uomo dell’establishment, come Vladimir Putin, è stato in grado, nei pochi anni in cui è stato Capo di Stato, di accumulare una fortuna personale di oltre  20 miliardi di dollari). Gli osservatori favorevoli al  libero mercato fanno sicuramente bene, dal canto loro, a richiamare l’attenzione su una serie di pericoli ben precisi: sia che si sostanzino in una eccessiva regolamentazione, suscettibile di inibire l’afflato imprenditoriale; ovvero, in una imposizione fiscale fuori controllo, che punisce il successo; o, ancora, in un debito ipertrofico, che è la conseguenza di un rigore di bilancio che ha ceduto il passo alla leggerezza speculativa.
I sostenitori del libero mercato non hanno inoltre mancato di osservare come l’attuale stato delle cose determini il sovvertimento del concetto stesso di “sfruttamento”. In precedenza, i ricchi vivevano a spese dei poveri, in via del tutto diretta ed inequivocabile. Nelle economie moderne, invece, sono sempre più i cittadini improduttivi a vivere parassitariamente alle spalle di quelli produttivi, ancorché lo facciano in maniera del tutto equivoca, posto che, come si dice e si reputa, essi sono svantaggiati ed in virtù di questo meriterebbero un sostegno ancor maggiore. Ai giorni nostri, di fatto, una buona metà della popolazione di ogni nazione moderna è costituita da persone che, disponendo di un reddito scarso se non nullo, sono esenti da qualsiasi obbligo fiscale, e vivono, in larga misura, a scapito dell’altra metà della popolazione, che al contrario paga le tasse. Se tale situazione dovesse radicalizzarsi, ciò potrebbe sicuramente  dar luogo ad estesi conflitti sociali. Questa tesi, eminentemente plausibile, dello sfruttamento da parte dei ceti improduttivi, elaborata dai fautori del libero mercato, avrebbe poi prevalso sulla omologa tesi di matrice socialista, di sicuro molto meno convincente, che ravvisava lo sfruttamento dei lavoratori ad opera dei capitalisti. L’affermarsi di questa rivoluzione concettuale recherebbe con sé l’avvento di un’era post-democratica.
Allo stato attuale, il pericolo principale per la futura tenuta del sistema coinvolge il crescente indebitamento degli Stati, intossicati dal proliferare delle politiche keynesiane. In maniera del tutto impercettibile, ma ormai del tutto inevitabile, ci stiamo dirigendo verso una situazione in cui, ancora una volta, i debitori potranno espropriare i loro creditori, come è purtroppo sovente accaduto nel corso della storia della tassazione, dall’epoca dei faraoni, alle riforme monetarie del ventesimo secolo. La novità è data dalla scala gigantesca del debito pubblico. Non importa le spoglie sotto cui formalmente si presenteranno – se come garanzia, insolvenza,  riforma monetaria, o inflazione – ma i prossimi grandi espropri sono già in corso d’opera. Oggi, la mano avida dello Stato si è già insinuata nelle tasche delle generazioni di coloro che devono ancora venire al mondo. Abbiamo già scritto il titolo del prossimo capitolo della nostra storia: “il saccheggio del futuro da parte del presente”.

APPELLO AL POPOLO TRAPPOLA DELLA RETE

             
 

Le trappole della Rete di Stefano D’Andrea - Fonte: Appello al Popolo          


Le trappole della Rete

di Stefano D’Andrea - 04/09/2012

Fonte: Appello al Popolo
(Ci stavo riflettendo proprio ieri.......n.d.r.)
Ogni strumento apporta una utilità o crea una possibilità e al tempo stesso arreca danni o comunque cagiona perdite: l’esempio paradigmatico è il telefono, che quando venne introdotto consentì agevoli contatti con la persona lontana ma spinse ben presto ad abbandonare la scrittura di lettere: l’uomo che telefona non è necessariamente migliore dell’uomo che scrive lettere. La rete di internet non si sottrae alla regola generale. Nessuno può contestare che la rete consente di reperire informazioni che altrimenti non avremmo avuto e di conoscere riflessioni che altrimenti non avremmo mai letto. La rete ha permesso, non soltanto in Italia, di organizzare partiti politici – è il caso del movimento cinque stelle o dei diversi partiti dei pirati. Perciò essa è anche mezzo organizzativo, oltre che mezzo di diffusione di informazioni e riflessioni estranee al pensiero unico (nelle due versioni di sinistra e di destra, comprese le varianti della sinistra e della destra radicali).
Tuttavia, queste indubbie potenzialità della rete non devono spingere verso il disinteresse per le trappole che la rete tende e nelle quali si cade facilmente. La prima trappola consiste nell’indurre il navigante a credere che coloro che sono in possesso di una determinata notizia o che accolgono un preciso punto di vista morale o politico o una interpretazione storica o una proposta di politica economica siano molti di più di quanti sono effettivamente. La chiamerei la trappola dell’illusione quantitativa. E’ una trappola che la rete tende per sua natura. Tutti i pesci che amano un determinato cibo, ossia tutti gli utenti che si interessano di alcuni temi o che vanno in cerca di posizioni eterodosse intorno a una certa materia – per esempio la sovranità monetaria, economica o politica o i temi connessi alla decrescita -, sono attirati, per il funzionamento di internet, in un preciso “luogo” o meglio tratto, più o meno ampio, della rete. Quanti sono i siti di “controinformazione” (uso una parola che non amo, soltanto in ragione della sua diffusione) o di “controriflessione” che occupano quel luogo? Tutto sommato sono pochi e comunque non molti. Accade così che un gruppo di siti o di pagine facebook sia frequentato in gran parte dalle medesime persone. Quindi un sito avrà mille contatti giornalieri, un altro duemila, un altro tremila e un altro ancora seimila; ma le persone che approfondiscono quotidianamente il tema principale di questo gruppo di siti non sono dodicimila (mille più duemila, più tremila più seimila), bensì sei o settemila al giorno e verosimilmente dieci-dodicimila a settimana. Ma la trappola consiste in altro e segnatamente nel fatto che quei siti e quelle pagine facebook sono frequentati da pochissimi sostenitori della linea dominante. In calce agli articoli si accumulano commenti, talvolta a decine, tutti favorevoli a una nuova linea politica, a una deversa politica economica, a una diversa politica energetica, a una diversa collocazione geopolitica dell’Italia. Frequentando quotidianamente quei siti, nei quali si dileggiano e denigrano con strafottenza le concrete e reali decisioni o affermazioni di politici, economisti e giornalisti mainstream, si finisce per avere l’impressione di appartenere a una minoranza non così poco numerosa come si credeva. Non solo. Dinanzi al fatto che, sia pure lentamente, i siti di controinformazione e controriflessione aumentano e così pure i frequentatori di quei siti, si ha l’impressione di appartenere a un movimento politico in grande crescita o che comunque si sta diffondendo in misura maggiore di come effettivamente si va diffondendo.
La verità è che la rete aggrega e segrega; riunisce i pesci che amano un determinato cibo in un tratto di rete e così separa quei pesci dai tanti altri che si nutrono di altri cibi. L’illusione quantitativa non riguarda soltanto il numero di persone che aderirebbero a una nuova dottrina e sosterrebbero politiche economiche alternative alla linea dominante, riguarda anche e soprattutto il livello di disperazione, di rabbia e di contestazione; la disponibilità a ribellioni, ad invadere piazze e città, a partecipare a occupazioni illegittime. Frequentando taluni siti o alcuni gruppi facebook si scopre che migliaia di persone scagliano quotidianamente offese, insulti,  e frasi di rabbia contro i politici. Si ha come l’impressione che esistano centinaia di migliaia di ribelli. Si è indotti inizialmente a credere che coloro che si esprimono su quei siti siano rappresentativi di un modo di essere molto diffuso.  Tuttavia, quando fuori dalla rete si parla con le persone comuni, al bar, in incontri occasionali con vecchi amici, durante incontri lavorativi o professionali o sotto l’ombrellone, ci si avvede che al massimo una persona su cento rivela quella rabbia, quella perdita di controllo, quella volontà ribelle. Coloro che parlano della crisi sono molti di più. Moltissimi commercianti, molti imprenditori, tutti i disoccupati e molti lavoratori precari. Salvo alcune eccezioni, non lo fanno tuttavia con ossessione. Nella maggior parte dei casi si tratta di uno degli argomenti di conversazione. Soltanto una parte degli ossessionati è persuasa che si debba uscire dalla crisi con scelte politiche innovative, che segnino un netto distacco dalle politiche fino ad ora seguite. Molti, infatti, sono convinti che il sistema si riprenderà tra qualche anno o magari tra un paio di anni; non pochi accettano l’idea che la crisi sia un costo da pagare e che poi si ripartirà. Alcuni dicono che la crisi farà bene, perché è nei momenti difficili che le persone di valore si fanno valere. Altri dichiarano di non capire le ragioni delle diffuse difficoltà economiche. Moltissimi sparano la sentenza risolutiva: se facessero pagare le tasse a tutti….; se licenziassero tutti gli statali che non lavorano…..; se eliminassero gli intralci burocratici…..; se abbassassero le imposte a un livello accettabile….. Si tratta di un gruppo molto nutrito, per il quale la soluzione è in fondo agevole, salvo il fatto che chi è al governo non avrebbe interesse a prenderla. Ma le persone che, pur avvertendo una qualche perdita economica, o invece non subendo alcun effetto negativo della crisi, si disinteressano alla crisi e non parlano di euro e unione europea più di una volta, per venti minuti, ogni due settimane sono di gran lunga la maggioranza.
La rete è dunque utile per scoprire informazioni e riflessioni. Ma poi va utilizzata per uscirne: per organizzare un’associazione o movimento o partito di persone che militino nelle cittadine e nelle città italiane. Portare la “controinformazione” e la “controriflessione” fuori dalla rete è già militare. Organizzare volontà politiche collettive, che si esprimano e agiscano fuori dalle catacombe di internet, e che diffondano controinformazioni e controriflessioni al fine di fare proseliti ed ingrandire l’esercito dei militanti è ancora meglio. L’obbiettivo è sacrosanto ma non così facile da realizzare. La rete, infatti, tende un’altra trappola: dà la dipendenza[...]