DA  @diversamenteabi  MARINAIO su TWITTER
 
Per poter valutare l’espansione

 senza precedenti che lo Stato democratico moderno ha registrato in 
Europa, è utile ricordare l’affinità storica tra due movimenti che 
emersero alla sua nascita: il liberalismo classico e l’anarchismo. 
Entrambi questi movimenti furono motivati dall’ipotesi, rivelatasi poi 
errata, che il mondo si stesse incamminando verso un’era di 
indebolimento dello Stato. Ma mentre il liberalismo propendeva per uno 
stato minimo che governasse i cittadini in modo quasi impercettibile, 
lasciando loro la libertà di condurre i loro affari in  santa pace, 
l’anarchismo, al contrario, auspicava la dissoluzione totale dello 
Stato.
Dietro questi due movimenti si celava 
una speranza tipica del Novecento europeo: che lo sfruttamento dell’uomo
 sull’uomo sarebbe ben presto giunto al capolinea. In un caso, ciò 
sarebbe originato dall’eliminazione della predazione parassitaria 
esercitata dalle classi improduttive, quali la nobiltà e il clero. 
Nell’altro caso, la chiave di volta era stata individuata nel processo 
di riorganizzazione delle tradizionali classi sociali, che si sarebbero 
costituite in piccoli gruppi autosufficienti. Ma la storia politica del 
ventesimo secolo, e non solamente nel corso delle sue derive 
totalitarie, si è dimostrata del tutto inclemente, tanto con il 
 liberalismo classico, quanto con l’anarchismo. Lo Stato moderno 
democratico a poco a poco si è trasformato nell’attuale “Stato 
debitore”: nel volgere di un secolo, il processo di metastasi ha dato 
luogo a un mostro colossale, un mostro che respira e sputa fuori i 
soldi.
Questa metamorfosi è stata la 
risultante, soprattutto, di un prodigioso allargamento della base 
imponibile, specie in forza dell’introduzione dell’imposta progressiva 
sul reddito. Questa imposta è l’equivalente funzionale dell’ 
espropriazione socialista. Ma capace di garantire, in più, il notevole 
vantaggio di essere reiterata di anno in anno, almeno in tutti i quei 
casi in il soggetto non risulti dissanguato dal salasso dell’anno 
precedente (Per avere un’idea della tolleranza dei cittadini del giorno 
d’oggi, basti ricordare che quando l’imposta sul reddito fu introdotta, 
per la prima volta,  in Inghilterra, con una pressione del 5 per cento, 
la regina Vittoria era seriamente preoccupata del fatto che ciò avrebbe 
rischiato di oltrepassare ogni limite tollerabile. Da quel giorno, ne è 
passata di acqua sotto i ponti: e siamo ormai assuefatti all’idea che 
una manciata di cittadini produttivi debba  necessariamente fornire, con
 le loro tasse, più della metà del gettito sul reddito nazionale).
Quando questo prelievo forzoso si 
combina con una lunga batteria di ulteriori tasse e imposte, che vanno 
ad incidere soprattutto sui consumatori, si origina un risultato 
sorprendente: ogni anno, gli Stati moderni rivendicano la metà dei 
proventi economici generati dalle loro classi produttive e li affidano 
in consegna agli esattori delle tasse. E ciononostante, queste classi 
produttive non tentano di rimediare alla loro situazione  ricorrendo 
alla sola reazione che appare come la più ovvia e naturale: una civile 
rivolta fiscale! Questa totale ed assoluta sottomissione si configura 
effettivamente, [per i governanti, ndt], come un formidabile successo 
politico, che avrebbe fatto cadere in deliquio  il ministro delle 
finanze di qualsiasi sovrano.
Rifacendoci a queste considerazioni, 
possiamo ben capire che la domanda che molti osservatori europei 
continuano a formulare durante l’attuale crisi economica – “il 
capitalismo ha un futuro?”, è del tutto mal riposta. In realtà, quello 
in cui ci tocca vivere non è affatto un  sistema capitalistico: ma è una
 forma di  ibrido semi-socialista che gli europei, con molto tatto, 
definiscono “economia sociale di mercato”. La mano avida dello Stato 
cede parte del bottino soprattutto per placare l’apparente interesse 
pubblico, finanziando attività inutili e prive di senso  in nome della 
“giustizia sociale”.
Così, lo sfruttamento diretto ed 
egoistico dell’epoca feudale è stato trasformato, nell’era moderna, in 
un  stato,  giuridicamente vincolato e quasi disinteressato, di totale 
cleptocrazia. Oggi, un ministro delle finanze è una sorta di Robin Hood 
che ha prestato fedeltà a un giuramento costituzionale. La capacità che 
caratterizza il Tesoro, di arraffare il bottino con la coscienza 
perfettamente pulita, è legittimata, tanto da un punto di vista teorico 
quanto nella pratica, dall’affidamento che si ripone nell’incontestabile
 utilità dello Stato nel mantenere la pace sociale, per non parlare di 
tutti gli altri vantaggi che si vuole esso fornisca (In tutto questo, la
 corruzione rimane un fattore del tutto irrisorio… Per comprovare quello
 che sto dicendo, basti solo pensare alla situazione della Russia 
post-comunista, dove un ordinario uomo dell’establishment, come Vladimir
 Putin, è stato in grado, nei pochi anni in cui è stato Capo di Stato, 
di accumulare una fortuna personale di oltre  20 miliardi di dollari). 
Gli osservatori favorevoli al  libero mercato fanno sicuramente bene, 
dal canto loro, a richiamare l’attenzione su una serie di pericoli ben 
precisi: sia che si sostanzino in una eccessiva regolamentazione, 
suscettibile di inibire l’afflato imprenditoriale; ovvero, in una 
imposizione fiscale fuori controllo, che punisce il successo; o, ancora,
 in un debito ipertrofico, che è la conseguenza di un rigore di bilancio
 che ha ceduto il passo alla leggerezza speculativa.
I sostenitori del libero mercato non 
hanno inoltre mancato di osservare come l’attuale stato delle cose 
determini il sovvertimento del concetto stesso di “sfruttamento”. In 
precedenza, i ricchi vivevano a spese dei poveri, in via del tutto 
diretta ed inequivocabile. Nelle economie moderne, invece, sono sempre 
più i cittadini improduttivi a vivere parassitariamente alle spalle di 
quelli produttivi, ancorché lo facciano in maniera del tutto equivoca, 
posto che, come si dice e si reputa, essi sono svantaggiati ed in virtù 
di questo meriterebbero un sostegno ancor maggiore. Ai giorni nostri, di
 fatto, una buona metà della popolazione di ogni nazione moderna è 
costituita da persone che, disponendo di un reddito scarso se non nullo,
 sono esenti da qualsiasi obbligo fiscale, e vivono, in larga misura, a 
scapito dell’altra metà della popolazione, che al contrario paga le 
tasse. Se tale situazione dovesse radicalizzarsi, ciò potrebbe 
sicuramente  dar luogo ad estesi conflitti sociali. Questa tesi, 
eminentemente plausibile, dello sfruttamento da parte dei ceti 
improduttivi, elaborata dai fautori del libero mercato, avrebbe poi 
prevalso sulla omologa tesi di matrice socialista, di sicuro molto meno 
convincente, che ravvisava lo sfruttamento dei lavoratori ad opera dei 
capitalisti. L’affermarsi di questa rivoluzione concettuale recherebbe 
con sé l’avvento di un’era post-democratica.
Allo stato attuale, il pericolo 
principale per la futura tenuta del sistema coinvolge il crescente 
indebitamento degli Stati, intossicati dal proliferare delle politiche 
keynesiane. In maniera del tutto impercettibile, ma ormai del tutto 
inevitabile, ci stiamo dirigendo verso una situazione in cui, ancora una
 volta, i debitori potranno espropriare i loro creditori, come è 
purtroppo sovente accaduto nel corso della storia della tassazione, 
dall’epoca dei faraoni, alle riforme monetarie del ventesimo secolo. La 
novità è data dalla scala gigantesca del debito pubblico. Non importa le
 spoglie sotto cui formalmente si presenteranno – se come garanzia, 
insolvenza,  riforma monetaria, o inflazione – ma i prossimi grandi 
espropri sono già in corso d’opera. Oggi, la mano avida dello Stato si è
 già insinuata nelle tasche delle generazioni di coloro che devono 
ancora venire al mondo. Abbiamo già scritto il titolo del prossimo 
capitolo della nostra storia: “il saccheggio del futuro da parte del 
presente”.