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martedì 15 maggio 2012

TROPPA ROBA DA NON PERDERE FASE 2

MONTI L'IGNORANTE CE ANCHE UN VIDEO     Clik  Sopra Il Link  


Parguez: con l’euro si avvera oggi il sogno dei fan di Hitler


                                                                                 Sono qui per parlarvi di una storia oscura e tragica. Avete già capito: l’Europa è un mostro che va contro tutte le regole della teoria monetaria e dell’economia moderna. Perché esiste un sistema così assurdo? Mi è stato detto che nel vostro paese – come nel mio, del resto – alcune persone pensano che, se riusciamo a liberarci dell’euro, l’Italia o la Francia diverrebbero equiparabili ad alcuni dei paesi più poveri dell’Africa, come lo Zimbabwe. Ma l’economia reale dell’Eurozona è già nello stesso stato dello Zimbabwe. In Francia, il vero tasso di disoccupazione è di circa il 60% della popolazione attiva, una cifra enorme. E il vero tasso di inflazione è del 7-8%. Perciò non abbiamo la piena occupazione né una stabilità dei prezzi. Questo significa che tutti i dati ufficiali europei sono menzogne.
Cito il direttore generale del ministero delle finanze francese, che appartiene all’ordine monastico dei Benedettini ed è anche il capo dell’Opus Dei Alain Parguez francese – fra l’altro, anche la Commissione Europea (come il governo francese) è ampiamente controllata dall’Opus Dei. Ho provato a parlare con lui di questa questione, e mi ha detto: «Sì, l’economia francese è morta, ma non abbastanza». Mi ha detto: «Professore, lei deve capire perché esiste il sistema europeo. Che cosa vogliamo? Vogliamo distruggere, per sempre, la gente. Vogliamo creare una nuova tipologia di europeo: una nuova popolazione europea, disponibile ad accettare la sofferenza, la povertà. Una popolazione disposta ad accettare salari inferiori a quelli cinesi. E questo rappresenterà il fulcro del mio impegno».
Il sistema dell’euro non è mai stato pianificato per portare ad un’unione monetaria, né è stato pensato come agenda neoliberista all’americana; e questo è ancora completamente ignorato dall’élite dominante europea. Basti pensare che, anche per il leader del partito socialista francese, il presidente Obama è un marxista. Quindi che cos’è l’euro? E’ un nuovo ordine sociale totalitario. E’ stato programmato molto tempo fa, nel periodo fra le due guerre mondiali, e poi completato, per così dire, dal regime di François Mitterrand. In questo nuovo ordine non ci saranno più Stati sovrani. Lo Stato deve svanire – perlomeno, lo Stato, che trova radici nella democraziaJulius Evolanel Parlamento, nella Repubblica. Nel nuovo ordine, il potere dev’essere interamente trasferito a coloro che lo “meritano”. E questo significa un’élite, una classe capitalista di tecnocrati a cui piace il potere assoluto di controllo.
L’origine dell’unione monetaria europea nasce tra le due guerre dalle parti più reazionarie e conservatrici della classe dominante francese. Il filosofo italiano Julius Evola aveva accusato Mussolini di essere troppo morbido con la gente e lo stesso Hitler di essere troppo favorevole al popolo. La cosiddetta crisi del debito sovrano è ovviamente un evento che non si è mai prima verificato nella storia. Una crisi di questa portata è stata attentamente pianificata dagli architetti del sistema europeo. Quel che avevano in mente era di privatizzare lo Stato. E dato che uno Stato in cui esiste unademocrazia tende a perdere ricchezza, è ovvio che poi si trova obbligato a prendere in prestito denaro, quindi il suo debito è considerato a rischio: pertanto lo Stato dev’essere completamente assoggettato al cosiddetto mercato dei bond, ed è esattamente quello che sta succedendo.
Non esiste modo di risolvere il problema e accomodare il sistema, perché come ordine sociale ha una sua logica, e coloro che controllano il sistema non accetteranno mai nessun tipo di cambiamento, soprattutto nessun tipo di intervento della Bce che non sia mirato ad incrementare esclusivamente la ricchezza delle banche. L’unica possibilità di salvare la società europea è liberarsi di questo sistema. In Europa, il settore privato è morto. I leader del settore capitalistico non sono più interessati all’economia reale: sono Jean Monnet e Robert Schuman“rentier”, percettori di rendite finanziarie, e il capitalismo sta morendo. In Francia, già da 5-6 anni, la crescita è al di sotto del 3-4% all’anno. L’euro? E’ una moneta falsa, che distrugge a tutti gli effetti l’economia reale.
Nella pianificazione del sistema dell’euro ci sono due fasi. La prima va dal 1940 al 1943, la seconda è opera in gran parte di Mitterrand. Nella metà degli anni ’30, si comincia con persone come Schuman e Jean Monnet. Già nel 1927 Schuman scrisse che c’era bisogno di creare l’Europa come nuovo ordine, radicato nella tradizione. “Salvare l’Europa dalla decadenza”, per i pro-europeisti significava: salvarla da socialismo, rivoluzione, proteste, ebrei, marxisti, libero accesso alla sanità e all’istruzione, aborto, omosessualità. L’obiettivo dei primi europeisti era costruire un sistema esattamente opposto a quello della società degli Usa, che odiavano. L’élite europeista odiava la società dei consumi americana: odiavano più gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica.
Cosa si doveva fare per costruire l’Europa? Abolire gli Stati; forzare uno stato di deflazione permanente; ridurre progressivamente la spesa pubblica; e trasferire il potere a una classe super-partes di tecnocrati, operante a livello sovranazionale. Per questi europeisti della prima ora, cosa significava l’Europa? Significava creare un condominio, composto da Francia e Germania, e un impero coloniale che includesse anche il sud dell’Europa e l’Europa orientale; questo obiettivo era stato chiaramente esplicitato. E Friedrich Hayekcome si poteva sopprimere lo Stato? Bisognava privarlo di qualunque potere, relativamente alla moneta. Tutti questi europeisti erano fanatici seguaci di Friedrich Hayek, l’economista austriaco più di destra di quel tempo.
L’Europa avrebbe quindi dovuto basarsi su una valuta sovranazionale, interamente controllata da una banca centrale sovrana che godesse di poteri assoluti per sovrastare gli Stati. In ultima analisi, il loro obiettivo era di imporre la futura valuta europea come un super-standard aureo: il primo abbozzo, per così dire, del Trattato di Maastricht, venne scritto dall’economista francese François Perroux nel 1943, col pieno supporto di un trattato approvato dal regime tedesco e dal regime francese pro-nazista dell’epoca. Il nuovo trattato, formulato e approvato dal presidente Sarkozy e dalla signora Merkel, è esattamente basato su quanto scritto da François Perroux nel ’43.
Quelle persone erano contrarie allo standard aureo tradizionale, perché ritenevano che non avesse permesso la totale abolizione del potere di spesa dello Stato; quindi, bisognava creare uno standard aureo superiore. E questa era la prima fase del processo. Ma per qualche tempo il progetto europeo venne tenuto nelle retrovie, perché tutti i suoi fautori erano più pro-hitleriani di Hitler stesso. Per cui è stato necessario aspettare il regime di François Mitterrand. Un suo super-consulente, un monarchico, diceva: «Io odio i poveri». Era Jacques Attali: de facto, il primo ministro della Francia. Tra l’altro, Attali era il capofila di una serie di ex marxisti, convertiti in sostenitori del nuovo regime. Era quindi incaricato di creare una versione Jacques Attalipiù “sostenibile” dell’euro-sistema. Ma la visione era la stessa: «Dobbiamo distruggere i centri commerciali», che per loro erano espressione di pura infamia, perché le persone dovevano accettare di essere povere.
Mi ricordo di alcuni dibattiti in seno alla commissione segreta che si occupava dell’entourage presidenziale; Mitterrand doveva guadagnarsi il supporto dell’allora partito comunista, e io fui incaricato di scrivere una serie di modeste considerazioni, keynesiane, di  teoria economica moderna. Ma tra i finanziatori della campagna elettorale di Mitterrand c’era la Chase Manhattan Bank, e così non fu mai sostenuto un programma di piena occupazione. Attali diceva: «Io ho l’impegno del nostro caro, futuro presidente: appena possibile noi distruggeremo lo Stato, creeremo una deflazione dell’economia, i salari reali crolleranno; quel che abbiamo in mente è il collasso totale del reddito dei lavoratori e della società francese». Come riuscire a fare tutto questo? Con il Trattato di Maastricht e con la creazione dell’euro.
Sottolineo innanzitutto le menzogne. Mi è capitato di trovarmi piuttosto vicino a François Mitterrand, molto tempo fa; prima della guerra aveva avuto un legame particolare con mia madre, che mi diceva: «François è così bravo a raccontare balle che può riuscire persino a far credere che gli interessi far del bene alla gente». Durante l’unico dibattito sul Trattato di Maastricht, in risposta alla domanda di uno studente, Mitterrand osò dire: «Posso giurare che, nel trattato, non esiste menzione di alcuna banca centrale europea indipendente». Il principio fondamentale dei trattati europei era la privatizzazione dello Stato. E cioè: obbligare gli Stati a prendere in prestito denaro, vendendo titoli alle banche private. Gli Stati, come qualunque azienda dalla reputazione profondamente pura, dovevano François Mitterrandandare a chiedere i soldi alle banche, ai tassi di interesse stabiliti dalle banchestesse.
Il Trattato di Maastricht e il conseguente Patto di Crescita e Stabilità – il vero nome avrebbe dovuto essere: Patto di Distruzione e Instabilità – ha rappresentato la realizzazione dei loro obiettivi: gli Stati completamente assoggettati alle banche private, e quindi obbligati a tagliare la spesa pubblica. E’ esattamente quello che è successo, benché le menzogne continuino. La percentuale di debito pubblico, nell’ambito del patrimonio delle banchefrancesi e tedesche, è al di sotto del 5%. Le banche perdono soldi non a causa del debito pubblico, ma a causa del collasso totale dell’economia reale. Sono assolutamente terrorizzato quando la gente dice: «Oh, povere banche!». Il governo francese ha mentito, ma sapeva bene quali fossero le vere condizioni dell’economia greca: il 90% del debito greco – come quello italiano – è nelle mani delle banche francesi e tedesche.
Se il nuovo trattato verrà poi effettivamente approvato, ci troveremo di fronte alla totale abdicazione degli Stati, delle politiche fiscali e di qualunque tipo di politica sociale. Sarà quindi raggiunto quel sogno di costituire un “nuovo ordine”. Ora il problema di chi deve gestire il sistema è: come si potrà mantenere il controllo della società? E’ questo il problema che si pongono. Di questo hanno timore, perché non c’è dibattito: in Germania, in Francia, e nei maggiori paesi europei, gli economisti ufficiali sono assolutamente corrotti; direi che si possono considerare delle prostitute. E siamo nelle loro mani: non si parla mai delle infamie alla base del crollo del sistema europeo.
(Alain Parguez, eminente economista e professore emerito dell’università francese, già consulente del presidente Mitterrand; testo dell’intervento pronunciato a Rimini il 25 febbraio 2012 al summit mondiale sulla Modern Money Theory promosso da Paolo Barnard).
                                                     
     

Barnard: attenti a quei 30, sono loro che ricattano il mondo

                                                           

                                                                               Attenti a quei Trenta: ricattano il mondo truccando le regole. E nessuno li può fermare, perché maneggiano 650.000 miliardi di dollari, cioè otto volte il Pil del pianeta. In dieci anni, hanno messo in ginocchio l’economiareale. E sono ancora lì, a dettar legge, a cominciare da uno dei loro specialisti, Mario Draghi. Teoria del complotto? No: storia. Quella del famigerato “Group of 30”, creato alla fine degli anni ’70 da personaggi come David Rockefeller. Obiettivo: piegare le nazioni ai diktat della speculazione finanziaria. Missione compiuta: oggi l’interaEuropa è nelle loro mani, e un paese come l’Italia – membro del G8 – è agli ordini della super-lobby che ha commissariato il governo affidandolo al fido oligarca Mario Monti, tecnocrate targato Goldman Sachs, veterano del Bilderberg, della Trilaterale e della micidiale Commissione Europea, quella che oggi dispone il suicidio sociale degli Stati mediante il pareggio di bilancio.
Un capolavoro, in sole tre mosse. Primo: attraverso la “superstizione o isteria del debito pubblico”, si distrugge la capacità dello Stato di creare e Mario Draghi controllare qualsiasi ricchezza finanziaria significativa, che a quel punto resta unicamente nelle mani dei mercati di capitali, da cui gli Stati finiscono per dipendere in toto. Seconda mossa: i dominatori finanziari, che ora spadroneggiano, per ottimizzare la rapina globale incaricano la super-lobby dei tecnocrati di ridisegnare leggi e regole, con adeguata propaganda. Terzo: gli oligarchi impongono le loro condizioni-capestro ai governi, ormai privati della facoltà di creare ricchezza finanziaria e quindi dipendenti dal ricatto, pronti cioè a ingoiare qualsiasi aberrazione speculativa. Parola di Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto mondiale della finanza. Promotore italiano della Modern Money Theory – sovranità monetaria per avere democrazia reale e benessere sociale – Barnard è reduce dalla caserma dei carabinieri nella quale ha sporto denuncia contro Monti e Napolitano per “golpismo finanziario”.
C’era un piano ben congegnato per mettere nel sacco l’Italia: occorreva creare una sofferenza finanziaria artificiosa per consentire alla super-lobby di prendere direttamente il timone. Peccato che i “salvatori”, dice Barnard, fossero gli architetti stessi del piano: «Non ci vuole un genio a capire che il poliziotto iscritto al club dei ladri che gli pagano laute prebende finisce col tradire il suo mandato». Mario Draghi, per esempio: «Poteva fermare la loro mano semplicemente ordinando alla Bce di acquistare in massa i titoli di Stato italiani». Acquisto che avrebbe abbassato drasticamente i tassi d’interesse di quei titoli, la cui impennata stava portando l’Italia alla caduta nelle mani degli “investitori-golpisti”. Se Draghi avesse mosso un dito, i mercati si sarebbero fermati, «resi inermi di fronte al fatto che la Bce poteva senza problemi mantenere a un livello basso e costante i tassi sui nostri titoli di Stato». Ma Draghi, che pure siede sul trono della Banca Centrale Europea, Carlo De Benedettisi guarda bene dall’intervenire. Motivo? Non è solo l’ex governatore di Bankitalia: è anche, e soprattutto, un uomo di punta dei “terribili Trenta”.
Cosa ci fa un personaggio pubblico come Draghi dentro il club di coloro che hanno impedito al mondo di fermare la finanza criminale planetaria? Purtroppo, aggiunge Barnard, il presidente della Bce «dovrebbe vigilare proprio su coloro che condividono il suo club con intenti criminosi». Del resto, chi era il funzionario italiano che – da direttore generale del Tesoro – lungo tutti gli anni ’90 «supervisionò la svendita del nostro Paese alle privatizzazioni selvagge che non hanno sanato di nulla il debito pubblico ma che hanno sanato di certo imprenditori falliti come De Benedetti e fatto incassare miliardi in parcelle alle investment banks?» E chi era il funzionario italiano che «non ha detto una parola contro la micidiale separazione fra Banca d’Italia e Tesoro», divorzio «che ingrassò le medesime banche?». Sempre lui, l’ineffabile Draghi, «uomo “Group of 30”, uomo Bilderberg, uomo Goldman Sachs, e anche “bugiardo-Sachs”», visto che «ha sempre negato di essere stato in forza alla Goldman quando la banca di Wall Street organizzò la truffa per truccare i libri contabili greci in collusione col governo di Atene». E invece, dice Barnard, alla Goldman lui c’era, eccome: e ne dirigeva proprio gli affari europei.
E’ stato lui, Mario Draghi, a “inventarsi” un trilione di euro, in piena agonia dell’Eurozona, per regalarlo alle banche, praticamente senza condizioni. E tutto questo, dopo aver chiuso i rubinetti della Bce per far collassare il governo Berlusconi e consegnare l’Italia all’uomo del super-potere, Mario Monti. Manovra orchestrata dai maxi-speculatori, gli inventori della più spaventosa truffa planetaria, quella dei “derivati”, «astrusi prodotti finanziari del tutto comprensibili a non più di 200 individui nel mondo». Ma il “derivato dei derivati”, aggiunge Barnard, è proprio la crisi finanziaria 2007-2012, innescata dal virus dei titoli fasulli spacciati da Joseph Cassano, boss finanziario della City londinese. Il flagello dei “derivati” si è abbattuto su una situazione già catastrofica, provocata dalla bolla speculativa immobiliare americana dei mutui subprime, infettando quasi tutte le maggiori banche del mondo. Fino all’attuale “spirale della deflazione Joseph Cassanoeconomica imposta”, la famigerata austerity, che ora i “golpisti” – sempre loro – usano per depredare a sangue interi Stati europei.
I “derivati”, dice Barnard, sono vere e proprie armi di distruzione di massa, visto che questi “Frankenstein-assets” vagano per il pianeta senza più controllo né regolamentazione, per una cifra di circa 650.000 miliardi di dollari. Il primo allarme nel lontano 1994, coi miliardi-fantasma della banca d’affari Merrill Lynch. Un pozzo senza fondo, che ha travolto anche i Comuni italiani, invitati a “privatizzare” il debito. Ancora oggi, i contratti Otc (“over the counter”) sono «liberamente usati per distruggere, e lo stanno facendo glihedge funds come quello del criminale John Paulson, che scommettono in queste ore contro l’euro». Usando i “derivati”, continua Barnard, un pugno di speculatori può affondare persino uno Stato sovrano. Può ricattarlo e sospingerlo oltre il baratro del default. Con conseguenze agghiaccianti: disoccupazione e sotto-occupazione, suicidi, morti anzitempo, abbrutimento sociale, svendita-truffa del patrimonio pubblico, usura sullo Stato. E soprattutto: perdita di democrazia, a favore dei super-profitti dei soliti speculatori, grazie anche al “fascismo finanziario” dell’Unione Europea, che oggi fa gridare allo scandalo persino il “Financial Times”, di fronte ai trattati-capestro imposti senza mai un referendum.
«Domanda: come si è arrivati a questo? Perché non lo si è evitato? Risposta: “Group of 30”». Proprio i Trenta, secondo Barnard, sono la punta di lancia dell’operazione “golpista”. Una lobby di tecnocrati eccezionali, varata nel 1978 con l’aiuto dei Rockefeller: 30 membri, a rotazione, accuratamente designati. «Sono quasi tutti uomini che hanno lavorato con la mano destra nella speculazione finanziaria, e poi con la sinistra nella regolamentazione statale». Missione: piegare le leggi ai propri voleri, naturalmente all’insaputa dei cittadini. Il “Group of 30”, scrive Eleni Tsingou nel più devastante lavoro accademico sulla super-lobby planetaria, «non solo ha legittimato il coinvolgimento del settore privato nelle politiche di Stato, ma ha anche permesso all’interesse privato di divenire il cuore delle decisioni di politica finanziaria». Un trust di cervelli, potentissimo e imbottito di miliardi. E’ proprio il “Gruppo dei 30” a intuire le immense potenzialità dei “derivati”: Eleni Tsingousono stati loro, gli adepti della super-setta egemone, a inquinare il mondo con la peste dei titoli tossici, per riuscire infine a mettere in ginocchio interi Stati.
Nel 1993, racconta Barnard, il gruppo pubblicò il primo manuale d’uso sui “derivati”, destinato ai controllori statali, europei e americani, delle transazioni finanziarie: non sapevano come maneggiare quei titoli, quindi accolsero con favore lo studio del gruppo e l’ignoranza tolse loro ogni potere di contrastarne le pericolose conclusioni. Primo: i “derivati” sono indispensabili perché “rappresentano nuovi modi di capire, misurare e gestire il rischio finanziario”. Ovvero: «Gli strumenti più “rischiogeni” della storia dellafinanza avrebbero, secondo loro, ridotto il rischio». Poi: si sottolineava che “la chiave per l’uso dei “derivati” è l’autoregolamentazione”, visto che “le regole statali intrusive e basate sulla legge ne rovinerebbero l’elasticità e impedirebbero l’innovazione infinanza”. Ergo: si prega di non disturbare il manovratore. E i controllori? «Per evitare di apparire ignoranti che brancolavano nel buio si aggrapparono alle raccomandazioni del Gruppo, sia in Usa che in Europa, sospinti in modo decisivo proprio dai loro colleghi senior che erano membri di spicco di questa lobby».
Ma il “Group of 30” osò anche di più, continua Barnard: la super-lobby scrisse che i controllori avrebbero dovuto “aiutare a rimuovere le incertezze legali dei regolamenti in vigore”, e fornire un trattamento fiscale favorevole ai “derivati”. «L’intero lavoro era stato abbondantemente oliato con i fondi della mega-banca speculativa JP Morgan». Eppure, «nonostante la sfacciataggine di quelle righe – osserva Barnard – tre fra i maggiori organi di controllo del mondo, il Comitato di Basilea, il Congresso degli Stati Uniti e la Federal Reserve Usa, trovarono l’idea dell’autoregolamentazione accettabile». Di più: «Gettarono il loro peso contro i pochi controllori ed economisti che già allora suonavano le campane d’allarme», tra questi un prestigioso portavoce della Modern Money Theory come William Black. Al che, si mossero due delle più potenti lobby finanziarie anglosassoni: l’Iif di Washington (Institute for International Finance) e la Liba di Londra David Rockefeller(Investment Banking Association): i due colossi «buttarono sul tavolo della trattativa le loro proposte per l’autoregolamentazione della trasparenza sui “derivati”, a pieno sostegno del “Group of 30”».
Per dare un’idea agli scettici del complotto, aggiunge Barnard, basta ricordare che proprio la Iif è la lobby che, poche settimane fa, ha dato gli ordini nella trattativa suicida della povera Grecia verso la trappola del secondo “bailout”. E dire che l’occasione per capire e controllare la distruttività dei “derivati” Otc si era presentata già all’inizio degli anni ’90: ma il “Group of 30” fu il primario attore nell’annullamento di ogni tentativo di portare questi killer sotto il controllo pubblico, con le conseguenze che sappiamo: crimini globali. Utile riflettere, dice Barnard, su «cosa questi mostri hanno fatto alla vita di centinaia di milioni di famiglie, a milioni di aziende e alle democrazie dei maggiori paesi occidentali, per non parlare degli orrori nel Terzo Mondo e sull’ambiente». Oggi, in pratica, «viviamo tutti su un ordigno termonucleare finanziario fuori controllo che si chiama 650.000 miliardi di “Frankenstein-Derivatives” in grado di far fallire il pianeta». Apriamo gli occhi: «Nessuna Tommaso Padoa-Schioppademocrazia ha un senso, quando tutta la ricchezza è nelle mani di queste lobby senza pietà, a cui tutti i politici devono rispondere a bacchetta, invece che ai propri elettori».
E tanto per non far nomi, Paolo Barnard avverte che il “Gruppo dei 30” è fatto di persone in carne e ossa, ovviamente potentissime. Come gli americani Paul Volcker e Gerald Corrigan, passati dalla Fed a gruppi come Chase Manhattan Bank, Goldman Sachs, Morgan Stanley. Ci sono gli inglesi come lord Richardson of Duntisbourne (Banca Centrale d’Inghilterra, Lloyds Bank), l’ex ministro Geoffrey Bell, dirigente anche di Schroders, e lo stesso Mervyn King, governatore della Banca Centrale d’Inghilterra. Se dominano gli esponenti della finanza anglosassone come gli statunitensi William McDonough (Dipartimento di Stato e First National Bank of Chicago) e Lawrence Summers (Segretario del Tesoro Usa, fedele del Bilderberg) non manca il resto del mondo: l’israeliano Jacob Frenkel (Banca Centrale d’Israele e Merrill Lynch), il giapponese Toyoo Gyohten (Ministero delle Finanze del Giappone, dirigente della Banca di Tokyo), il brasiliano Arminio Fraga Neto (Banca Centrale del Brasile, Solomon Brothers Ny, Soros Management Fund),  l’iberico Guillermo de la Dehesa (Banca Centrale di Axel WeberSpagna e ministro delle finanze, nonché banchiere del Banco Santander Central Hispanico e di Goldman Sachs).
Alcuni membri del “Group of 30” hanno legato il proprio nome a famosissimi disastri: è il caso dell’ex ministro argentino dell’economia, Domingo Cavallo, padre della catastrofe che travolse il paese latinoamericano e “diligente allievo” del super-clan, i cui esponenti sono specializzati nel doppio incarico: Bundesbank e Dresdner Bank per il tedesco Gerd Hausler, Banca Centrale di Francia e Bnp Paribas per il transalpino Jacques de Larosière. Oltre a quello di Draghi, fra gli italiani spicca il nome dell’ex ministro prodiano Tommaso Padoa-Schioppa, quello dei “bamboccioni”, membro del Bilderberg come il francese Jean-Claude Trichet, già ministro delle finanze a Parigi e poi a capo della Bce. Conflitti d’interesse permanenti: chi lavora per la speculazione è chiamato anche a presiedere le autorità europee di controllo sulla finanza. E’ il caso del tedesco Axel Weber: Bundesbank, poi Ubs, quindi “European Systemic Risk Board” e “Financial Stability Board”.
Grottesco, annota Barnard: uno che lavora per il profitto speculativo con la super-lobby che ha scatenato il peggior rischio sistemico della storia della finanza mondiale, poi siede anche fra i funzionari che valutano il rischio sistemico in Europa, dichiarando di vigilare sulle crisi. Altro controllore, l’inglese Adair Turner, presidente della Financial Services Authority della Gran Bretagna, l’istituto nazionale deputato a controllare l’industria dei servizi finanziari. Eppure: «Eccolo a busta paga della super-banca speculativa Merrill Lynch Europe come vice-presidente, e in bella mostra al “Group of 30”», dopo aver anche fatto parte, a Londra, delle commissioni per le pensioni e per i salari minimi. Un altro controllore, il tedesco Gerd Häusler (Global Financial Stability Report e Financial Stability Forum) ce lo ritroviamo come direttore dell’Institute of International Finance diPaolo Barnard Washington, altro deregolamentatore dei “derivati”. Membro del “Group of 30”, Häusler compare anche a New York nell’agguerrita agenzia Lazard, che nel caso-Grecia «faceva il doppio gioco», come consulente sia degli “investitori-strangolatori”, sia del governo di Papademos.
Questi, dice Barnard, sono gli uomini che hanno creato le leggi-capestro che oggi dissanguano la nostra economia e confiscano la nostra sovranità: «Stiamo parlando del sistema che ha messo in ginocchio l’economia del mondo in meno di un decennio». E’ il super-potere che, anche in Italia, ha minato il futuro dei nostri bambini, regalandoci le immense sofferenze di cui ormai sono pieni ogni giorno i titoli del giornali, con buona pace di qualsiasi residua democrazia reale. «Questo è il “Group of 30”, la lobby che ha aiutato in modo decisivo a causare questo allucinante scenario, questo livello di crimine internazionale», conclude Barnard: «Trenta individui a rotazione, ma solo trenta, col nostro Draghi in prima fila. Roba da far apparire Goldfinger un patetico principiante».  

Il teorema della paura: la madre di tutte le preoccupazioni


                                                            Nuova emergenza-terrorismo, dopo l’attentato al manager dell’Ansaldo “gambizzato” in stile Bierre? Risposta: è la Tav, che è «madre di tutte le preoccupazioni». Non è la prima volta che il ministro dell’interno, Anna Maria Cancellieri, interviene sulla valle di Susa: mesi fa, dopo l’annuncio del “via libera” al mini-tunnel geognostico di Chiomonte, di fronte alle forti proteste della popolazione – scesa in strada a bloccare il traffico – si domandò, ad alta voce, se fosse proprio il caso di insistere con quella grande opera tanto controversa, generatrice di tensioni. Le rispose un minuto dopo il collega Passera: sì, è il caso. Motivo? Il solito: la Torino-Lione è un’opera strategica. Indiscutibile, punto e basta, anche se non spiegabile: 600 milioni di euro per ogni chilometro di binario, secondo Ivan Cicconi, e solo per creare un inutile doppione, nella stessa valle in cui l’attuale ferrovia italo-francese è ormai cronicamente disertata dalle merci.
Un giorno, forse, qualcuno avrà la bontà di chiarire, finalmente, quale ineffabile potere segreto abbia stabilito, in chissà quale inaccessibile Gianni De Gennaroriunione, che la ferrovia più inutile d’Europadovesse essere messa in cantiere, a tutti i costi, anche contro la più drammatica evidenza: lettera morta l’appello dell’università italiana al presidente Napolitano e al premier Monti. Sulla Torino-Lione, il governo ritrova la parola solo per dire che è la “madre di tutte le preoccupazioni” all’indomani dell’attentato di Genova. Così si finisce per puntare il dito contro una protesta scomoda, temutissima perché radicata e popolare, inaspettatamente ostinata nonostante la dura repressione e la raffica di arresti scattata a gennaio. E mentre la stampa mainstream si affretta a ipotizzare suggestive connessioni tra i No-Tav e i misteriosi protagonisti dell’agguato genovese, il presidente della Comunità Montana valsusina, Sandro Plano, iscritto al Pd, nel nuovo polverone dell’emergenza intravede «la mano dei servizi» e dichiara: «Di questo Stato non ci fidiamo».
Se la dottoressa Cancellieri è stata una stimata funzionaria della sicurezza e dell’ordine pubblico, il suo collega Passera ha sempre fatto il banchiere. Quella che manca è la voce della politica: un silenzio assordante, interrotto dai fischi che ormai perseguitano il povero Fassino, zittito persino dai tifosi della Juventus nella festa per lo scudetto, dopo che il Primo Maggio aveva fatto di Torino – unica città italiana – l’arena di un quasi-rodeo, coi manifestanti caricati in strada per aver osato fischiare il sindaco. Quelli che oggi fischiano – si sgolò inutilmente Fassino dal palco – sono gli stessi che un tempo scagliavano bulloni, o peggio. Teorema suggestivo, ma inesatto: perché a fischiare era la piazza in tumulto – imitata, pochi giorni dopo, da tutto lo stadio. L’Italia è in preda al panico scatenato dalla crisi, cresce il rischio oggettivo di disordini, e Mario Monti promuove nell’esecutivo, come viceministro, l’eterno Gianni De Gennaro, l’uomo dei fantasmi irrisolti del tragico G8 di Genova, rievocato dal film “Diaz” di Daniele Vicari, prodotto da Fandango. Proprio come la Torino-Lione, resta ancora senza vere Fassinospiegazioni quell’oscuro test di macelleria sociale, che secondo Amnesty International rappresentò la più clamorosa “sospensione della democrazia” mai sperimentata, in Occidente, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
I testimoni ascoltati da Franco Fracassi nei suoi libri-inchiesta sul G8 e i black bloc, tra cui il generale Fabio Mini e un ex dirigente dell’intelligence statunitense, convergono su un’ipotesi inquietante: furono i poteri forti mondiali, a Genova, a progettare e imporre la regia della mattanza. Movente: le grandi multinazionali globalizzate avevano paura del movimento no-global. Volevano stroncarlo, con grande preveggenza, e ci riuscirono. Oggi, un grande giornalista esiliato dalla televisione italiana come Paolo Barnard si è trasformato in attivista, e indica il cuore del problema: lo strapotere dellafinanza che ha piegato l’economia e, attraverso i suoi tecnocrati, procede a grandi passi verso lo smantellamento dello Stato come organo legittimo della sovranità popolare. Eventi di portata storica: lo scippo della moneta sovrana, la privatizzazione del debito e la paralisi dellafinanza statale, costretta – col pareggio di bilancio – a non erogare più ricchezza diffusa per il benessere sociale dei cittadini. Oggi, in piena crisi – dice l’economista francese Alain Parguez – il vero problema dell’élite Paolo Barnard mondiale che ha voluto tutto questo è: come fronteggiare la protesta che sta per inondare l’Europa?
Il panorama si aggrava di giorno in giorno, anche in Italia, fra gesti isolati di disperazione, attentati veri e immancabili teoremi. E il dramma, a monte, è l’inconsistenza – ancor più pericolosa – della rappresentanza democratica. Fabrizio Tringali, di “Alternativa”, fotografa l’incredibile risultato elettorale della città-chiave di questi giorni agitati, Genova: il Pd non supera il 10%, il Pdl è al 4,5. Ma attenzione: calcolando l’astensionismo, le schede bianche e quelle nulle, i voti validi sono appena uno su due, cioè la metà della massa degli aventi diritto. I partiti che a Roma sostengono Monti sono stati snobbati: solo un genovese su 20 ha votato per Bersani, e uno su 40 per Berlusconi. Questa, francamente, può essere la vera “madre di tutte le preoccupazioni”, mentre la Grecia precipita, l’euro vacilla, l’interaEuropa trema sotto i colpi del rigore. Nel frattempo, da Parigi a Berlino, arrivano i primi avvertimenti elettorali: così non si va da nessuna parte. Il momento è cruciale: nonostante la casta-fantasma che resiste nel fortino-Italia, a finire sotto accusa è la “dittatura” europea, il super-potere dei non-eletti, l’oscura élite che impone l’assurdità impietosa di una linea autoritaria e sempre più insostenibile, dall’abominio del Fiscal Compact fino ai misteri della surreale Torino-Lione.

Torino-Lione, record folle: la ferrovia più cara della storia

                                                                           La Torino-Lione, l’infrastruttura “strategica” più inutile d’Europa, sta per centrare un altro clamoroso record: sarà probabilmente l’opera pubblica più costosa del mondo. Una follia: 628 milioni di euro per ogni chilometro di ferrovia. Lo afferma un autentico specialista come Ivan Cicconi, autore del “Libro nero dell’alta velocità” e direttore di “Itaca”, istituto nazionale per la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, che offre consulenza tecnica alle Regioni italiane. In un intervento sul “Fatto Quotidiano”, Cicconi ripercorre la pazzesca cronistoria della Torino-Lione, progetto ancora “fermo” solo grazie alla strenua opposizione della valle di Susa. Vent’anni di ipotesi di tracciato, accordi Italia-Francia e strette di mano, senza mai una spiegazione chiara: tutti i dati dicono che quella linea non servirà mai a nessuno. Eppure, niente ferma il balletto delle cifre: quelle ufficiali e quelle “reali”, che prospettano un autentico suicidio finanziario. 
Tutto nasce dall’accordo firmato coi francesi il 29 gennaio del 2001 per la tratta internazionale, che nel progetto iniziale è lunga 72 chilometri, di cui Ivan Cicconi43,5 in Francia e 28,5 in Italia. I due Paesi dapprima stabiliscono di dividere la spesa a metà, ma poi i francesi nicchiano: per convincerli, il 5 agosto 2004 l’allora ministro Pietro Lunardi “sacrifica” l’Italia: il Belpaese si accollerà il costo dei due terzi dell’opera. Nel 2007, bocciato a furor di popolo il primo piano preliminare – grazie alla quasi-insurrezione popolare della valle di Susa – Francia e Italia presentato un nuovo progetto: la tratta internazionale, per la quale è richiesto il contributo europeo, attraversa il territorio francese per 45 chilometri e quello italiano per 33,4. Stima complessiva dei costi: 10,4 miliardi di euro. «Al netto dell’ipotetico contributo europeo del 40%, e con il contributo italiano di due terzi – spiega Cicconi – il costo a chilometro per la Francia sarebbe stato pari a 47 milioni di euro a chilometro, e per l’Italia di 123 milioni».
Anche su questo secondo accordo, tuttavia, i francesi poi frenano, contestando la ripartizione dei costi. Intanto, la Commissione Europea stabilisce che l’accordo dovrà divenire operativo entro il luglio 2009, ma neppure questa scadenza viene rispettata. «Con oltre due anni di ritardo – continua Cicconi – l’accordo è stato sottoscritto il 30 gennaio del 2012», concordando di ridurre la tratta internazionale a “soli” 57,1 chilometri, di cui 45 in Francia e 12,1 in Italia. «La ripartizione dei costi – prosegue Cicconi – viene pattuita con una quota del 57,9% per l’Italia e del 42,1% per la Francia». Ma a fronte di una apparente riduzione dell’impegno italiano, i francesi ottengono che la tratta di 22,2 chilometri in territorio italiano sia “stralciata” dalla tratta internazionale. E i relativi costi? Tutti addebitati al nostro segmento. Così, il costo a chilometro per l’Italia raddoppia, rispetto alle previsioni del progetto presentato all’Ue: sempre al netto dell’ipotetico Tavcontributo europeo del 40%, la Torino-Lione all’Italia costerà 235 milioni di euro per ogni chilometro di binario.
Totale: 2,85 miliardi di euro, per i 12 chilometri di tratta internazionale. «Un record sia nel valore assoluto che in quello relativo, stante l’aumento del 236% dell’impegno italiano, rispetto ai 70 milioni per chilometro previsti nell’accordo del 2001». Ma non è tutto: «Grazie al nuovo accordo – aggiunge Cicconi – alla Francia sarà garantito un altro record: quello del minor costo per la realizzazione di una galleria a doppia canna». Con il nuovo trattato, i francesi hanno imposto anche la definizione “low cost” dell’ultima versione del progetto. Nel loro caso è verissimo, mentre per l’Italia il progetto è assolutamente “high cost”. E chi ha garantito questo “straordinario” risultato per le finanze italiane? Cicconi fa due nomi: quello di Ercole Incalza, capo della “Struttura tecnica di missione per le grandi opere” del ministero delle infrastrutture, e naturalmente quello dell’architetto torinese Mario Virano, “commissario straordinario per la realizzazione della Torino-Lione”.
E attenzione: il “record” dei 235 milioni di euro a chilometro è calcolato solo sulla base di stime fondate sul progetto preliminare. La cifra aumenterà sicuramente, dice Cicconi, sia nella progettazione esecutiva che nella costruzione, visto che sarà adottato anche per la Torino-Lione il famigerato modello di architettura contrattuale e finanziaria già sperimentato per tutta la rete Tav. Un modello “miracoloso”: capace di gonfiare il costo iniziale  della Torino-Milano (8,6 milioni di euro a chilometro) fino ai 66,4 milioni del conto finale. Scontato, anche per laTorino-Lione, l’aumento complessivo della spesa: e dato che il contributo europeo del 40% resterebbe invariato, se il costo crescesse del 100% – calcolando la diversa lunghezza delle tratte – all’Italia potrebbe toccare un aumento finale del 200%. Risultato: arriverebbe a 628 milioni di euro il costo chilometrico della ferrovia più inutile della storia italiana, visto che sarebbe un Mario Virano“doppione” dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa, tristemente semideserta dato il crollo decennale del trasporto merci fra Italia e Francia.
Ma non è finita: alla certezza dell’aumento dei costi operativi per l’infrastruttura, spiega Cicconi, occorrerà poi aggiungere anche il relativo onere finanziario: «L’esperienza italiana – ironizza il tecnico – assicura straordinarie possibilità: ad esempio, i soli interessi intercalari per la Torino-Milano hanno registrato un costo pari a 8,6 milioni di euro per chilometro». Ovvero: il profitto finanziario si è mangiato una torta grande quanto il costo iniziale di costruzione della linea. E se qualcuno pensa che il “pareggio di bilancio” imposto in sede europea dal Fiscal Compact possa scoraggiare i promotori della Torino-Lione, niente paura: anche in questo, il modello-Tav ha già dato prova della possibilità di ricorrere, con il cosiddetto “project financing”, a risorse private tenute fuori dalla contabilità pubblica. Soldi nostri, che finiranno nel debito pubblico solo dopo che l’opera sarà stata realizzata. Unico rischio: una “censura” della Corte dei Conti, per l’occultamento di quel debito-fantasma.
«Essere accusati di aver fregato le future generazioni è una censura pesante» ma, se la colpa rimane impunita – come è stato finora – non scoraggerà certo «i tecnici adusi al governo di queste straordinarie architetture finanziarie». Basta dare un’occhiata al quadro che già si prospetta: nebbia fitta sulle specifiche ipotesi finanziarie e contrattuali, eppure – tra Consigli, Comitati e Commissioni – sono già previsti almeno 90 posti ben retribuiti, «per i quali non ci saranno problemi per trovare tecnici pronti a dare il loro contributo determinante per garantire al “record” italiano una durata secolare». Conclude amaramente Cicconi: «Certo sarebbe importante valutare il record con la misura del “debito” e del “futuro”, ma, secondo quanto ci raccontano, pare proprio che questo orizzonte appartenga ormai solo all’antipolitica e agli anarco-insurrezionalisti. 

No ai banchieri: un referendum contro il massacro sociale

                                                                         «Chiunque voglia affrontare le elezioni del 2013 in modo credibile, non può non dire come si correggono i disastri delle “riforme”, da quella delle pensioni a quella del mercato del lavoro». Spetta a Giorgio Airaudo, responsabile Fiom del settore auto, sintetizzare la vocazione del “soggetto politico nuovo”, provvisoriamente battezzato a Firenze il 28 aprile col nome di “Alba”: alleanza tra lavoro, beni comuni e ambiente. Un “work in progress” che raduna gli indignati e i delusi della non-politica: non tanto per creare l’ennesimo nuovo partito, quando per imporre un’agenda pubblica precisa. Primo obiettivo, dirompente: raccogliere da subito 500.000 firme per indire un referendum che sbarri la strada al Fiscal Compact, che impone il pareggio di bilancio e quindi la fine dello Stato sociale.
Davanti ai 1.400 convenuti al Mandela Forum, a definire i contorni dell’iniziativa provvede il sociologo militante Marco Revelli: «Partiamo Giorgio Airaudodalla pregiudiziale antiliberista, cioè la constatazione del fallimento totale del dogma che ci ha portato alla catastrofe attuale». Obiettivo: contrapporre «un organico modello alternativo», rispettando la centralità della questione-lavoro, a partire dalla difesa intransigente dello Statuto dei lavoratori, gioiello del welfareitaliano. Prospettiva: elezioni. «Speriamo ci sia un numero elevato di cittadini che non trova nell’attuale offerta politica un suo riferimento ideale», confida Massimo Torelli: «Non ci siamo dati la scadenza del 2013, il percorso avviato oggi andrà avanti di tappa in tappa». Si deciderà «a seconda di quanta partecipazione riusciremo ad attivare: stabiliremo tutti insieme che fare». Ben sapendo che il tempo stringe: mentre il governo Monti sbaracca ogni prerogativa pubblica e sospende la democrazia italiana col pretesto della crisi, l’economista Luciano Gallino dell’ateneo torinese spiega che, se solo lo si volesse, lo Stato potrebbe creare almeno un milione di posti di lavoro, puntando sull’occupazione “utile”, dall’energia all’edilizia ecologica, fino al ripristino ambientale e idrogeologico. 
«Avvertiamo che non c’è più tempo», conferma Revelli: «I pilastri fondamentali che la Costituzione aveva posto alla base della nostra democrazia – intendo i partiti politici – stanno sgretolandosi. E rischiano di trascinare nel loro crollo le stesse istituzioni repubblicane». Il passaggio è cruciale, e il progetto “Alba” mantiene una vocazione necessariamente transitoria, con una «appartenenza plurima», cioè l’apertura a chiunque condivida idee e programmi, anche se attualmente milita altrove. Come Nicola Fratoianni, di Sel, che scommette ancora sugli “stati generali del centrosinistra”. O Paolo Ferrero, di Rifondazione, che tifa per un “soggetto plurale” che «metta insieme tutti coloro a cui non piacciono né il governo Monti né soprattutto le sue politiche». Se l’obiettivo di “Alba” è quello di una nuova cittadinanza, scrive il “Manifesto”, il profilo giusto è quello dei referendum del giugno 2011, con la battaglia per i beni comuni. «Serve qualcosa di grande per affrontare le battaglie», chiude Airaudo: «Non per testimonianza, ma per vincerle». 

Val Susa, Avigliana respinge l’assalto Pd-Pdl targato Fassino

                                                                                  La marea dei fischi che il Primo Maggio a Torino ha letteralmente sommerso Piero Fassino si prolunga idealmente fino alla sua città natale, Avigliana, capoluogo produttivo della valle di Susa: l’inedita lista promossa personalmente dal sindaco torinese, una “macchina da guerra” sostenuta da Pd, Pdl e Udc e costruita appositamente per conquistare il più importante caposaldo No-Tav in valle di Susa, s’è fermata al 34% dei suffragi. Battezzata “Grande Avigliana”, nulla ha potuto contro gli “eretici” dell’amministrazione uscente, vicini alla maggioranza assoluta. Terza forza, determinante sul piano aritmetico, la lista di area leghista, rimasta fuori dalla “santa alleanza” organizzata per rovesciare la bandiera civica che da vent’anni sventola libera sul maggiore Comune valsusino. Un test di valore addirittura nazionale: respingendo l’assalto dei partiti, dice Giulietto Chiesa, il risultato valsusino «rincuora tutti coloro che lavorano per una drastica svolta politica in Italia».
«Ci hanno provato: volevano imbrigliare tutto il Piemonte, cominciando dalla valle di Susa, nella camicia di forza dell’alleanza tra Pd e Pdl, rivali fino Piero Fassino, originario di Aviglianaa ieri». Lo dice Claudio Chiaberge, capostipite dei “ribelli” di Avigliana. E’ l’uomo che nel lontano 1993 guidò una delle prime rivolte “anti-casta” d’Italia, cacciando i partiti e insediando proprio ad Avigliana una formazione dal nome eloquente, “Piazza Pulita”. Un presidio civico, che si è evoluto con Remo Castagneri e poi Carla Mattioli, in prima linea già nel 2005 sulle barricate No-Tav. E ora l’ultima decisiva vittoria, più forte della grande paura vissuta nel clima dell’assedio condotto dai super-poteri: «La nostra è stata un’assemblea democratica permanente, hanno deciso tutto i cittadini», dice il neosindaco Angelo Patrizio, di professione insegnante di musica: «Antipolitica? Al contrario: semmai, i partiti dovrebbero imparare la lezione e capire che la politica è proprio questo, è Bersani con Aristide Sada, candidato di "Grande Avigliana"innanzitutto la capacità di ascoltare e dialogare senza pregiudizi, verso soluzioni condivise e non imposte dall’alto».
A tirare un sospiro di sollievo non è solo la maggioranza dei cittadini di Avigliana, ma tutta la valle di Susa: alla chiusura del fatidico spoglio, la cittadina ha ospitato una processione ininterrotta di sindaci e autorità valsusine, tra cui il presidente della Comunità Montana, Sandro Plano, “dissidente” Pd in quanto No-Tav esattamente come il sindaco aviglianese uscente, Carla Mattioli, che confessa: «Sì, avevamo paura: contro di noi si era costituita un’alleanza di potere molto temibile». Proprio la discesa in campo di Fassino, che ha addirittura mobilitato Bersani per una foto di gruppo targata “Grande Avigliana”, ha indotto un “decano” come Chiaberge a tornare in campo: «Io provengo dal Pci di Berlinguer: e quando ho visto i vertici del Pd benedire l’alleanza strategica col Pdl anche in nome I vincitori delle elezioni di Aviglianadei grandi interessi della Torino-Lione, mi sono rimesso in gioco facendo il “porta a porta”, per spiegare ai cittadini il pericolo che correvano».
«La buona notizia è che gli aviglianesi hanno capito: cosa di cui ero sicuro», dice Rino Marceca, a fianco di Chiaberge dai tempi della “rivoluzione verde” che terremotò le segreterie dei partiti torinesi. Proprio Avigliana, importante polo industriale a metà strada fra Torino e Susa, ha creato le fondamenta per trasformare la valle in un clamoroso laboratorio politico: se Pde Pdl si sono uniti nella speranza di spegnere il focolaio dell’eresia e “commissariare” finalmente i valsusini, formazioni come Sel, l’Idv e i “grillini” hanno apertamente sostenuto la decisiva “battaglia di Avigliana” per non ammainare dal capoluogo la bandiera No-Tav. Il voto di Avigliana rappresentava davvero la drammatica prova delle Termopili: «Non siamo soli», dicono gli indomiti “resistenti” di Avigliana, «perché i cittadini sono con noi». Una lezione didemocrazia, che riconferma il sapore di una sovranità civica, garanzia di indipendenza dei territori. Avigliana, Italia: dalla valle di Susa un preavviso di sfratto all’oscuro regime dei tecnocrati, sostenuto da una “casta” allo sbando.  
    

Bagnai: perché Hollande sarà costretto a tradire gli elettori

                                                             Gli ottimisti la vedono come Gad Lerner, che “festeggia” la sconfitta europea di Angela Merkel: che in Francia perde il suo fedele alleato Sarkozy e in Grecia vede vacillare il suo “commissario” Lucas Papademos, indebolito dal crollo dei due partiti storici della democrazia ellenica, i conservatori di Nuova Democrazia e i socialisti del Pasok. Brutte notizie anche dal fronte interno tedesco: nello Schleswig-Holstein la Cdu segna un record negativo, anche se la Spd e i Verdi non possono gioire, perché il successo dei “Pirati” toglie loro i consensi necessari per una tradizionale “alternativa progressista”. Ma poi, naturalmente, ci sono anche i pessimisti. Fra questi, l’economista Alberto Bagnai, che “smonta” il successo di Hollande: la Francia in piena crisi è a un passo dal dramma, e – nonostante le promesse dei socialisti – anche su Parigi potrebbe spalancarsi il baratro del “massacro sociale”.
Sarkozy non poteva vincere, scrive Bagnai su “Goofynomics”, per due motivi: il primo è che, quando le cose vanno male, chi sta al governo perde François Hollandele elezioni – a prescindere dalle sue reali responsabilità, in un’economia come quella europea, imbrigliata dall’euro e travolta dal disastro finanziario statunitense. L’altro motivo è l’economia francese: «La Francia», dice Bagnai, «sta quasi alla canna del gas». Non ha ancora “aperto il rubinetto”, ma ormai ci siamo: «Siamo cioè nella fase in cui è necessario il macellaio col grembiulino rosa, sul quale gli schizzi di sangue (degli operai) si notano di meno». E perché ne avrebbe bisogno, la Francia, del macellaio col grembiulino rosa? «Semplice: perché anche lei deve ridare tanti soldini all’estero». Problema evidente, dando uno sguardo alla contabilità nazionale: «La Francia ha un forte problema di competitività, che si traduce in un saldo negativo e decrescente delle partite correnti (cioè in un crescente indebitamento estero), e quindi, non potendo svalutare rispetto ai suoi principali partner, dovrà praticare la cosiddetta “svalutazione interna”: rimozione delle garanzie sindacali, taglidei salari».
Non ci credete? “Ma Hollande è di sinistra, è la nostra speranza”. Aspettate, dice Bagnai, e ne vedrete delle belle: dove li trova, il nuovo presidente, i soldi per la (sacrosanta) espansione del welfare che ha auspicato in tutta la campagna elettorale, una vera e propria crociata contro il “rigore” predicato dalla Merkel, dalla Bce e dall’oligarchia finanziaria rappresentata dai tecnocrati che reggono il governo non-eletto dell’Unione Europea? Dal 2004, osserva l’analista, anche la Francia ha visto crescere la sua esposizione verso l’estero, data la crescentecrisi parallela del settore privato e di quello pubblico. «Un trend piuttosto eloquente e comune a tutti i paesi periferici dell’Eurozona». All’inizio il saldo privato era negativo: famiglie e aziende “risparmiavano”, al punto da finanziare il deficit pubblico e trovare soldi da prestare all’estero: «Erano gli anni in cui la Francia faceva Alberto Bagnaila spesa da noi, acquistando i supermercati». Poi, il calo: dal 1993 al 2008, il surplus privato si è ridotto inesorabilmente, fino all’attuale crisi.
Il margine dell’economia francese, continua Bagnai, si è progressivamente avvicinato allo zero, anche tamponando la frana del deficit pubblico. Poi, dal 2000, la situazione è ulteriormente peggiorata: meno “risparmi” e sempre meno soldi da prestare all’estero. Fino alla svolta del 2005, quando il saldo estero cambia segno: la Francia inizia a indebitarsi. Nel 2008 arriva la crisi di Wall Street e l’anno seguente Parigi reagisce con una forte politicaanticiclica: il fabbisogno pubblico schizza verso l’alto, e il settore privato inizia a “tirare la cinghia”. Ma l’indebitamento estero continua inesorabile a scivolare verso il basso: altri due punti di Pil. Per di più, aggiunge Bagnai, la forte politica fiscale anticiclica ha avuto i suoi effetti: dal 2007 al 2011, il debito pubblico in Italia è aumentato di 17 punti di Pil, mentre quello francese di 22. «Certo, loro stanno ancora a 86 punti di Pil e noi a 120. Intanto, ce n’è più che abbastanza per giustificare anche lì le politiche di austerità suicida».
Morale della favola: «La Francia è alla vigilia di una crisi del tutto analoga a quella di tutti i paesi periferici dell’Eurozona: crisi di bilancia dei pagamenti indotta da una riduzione “secolare” del risparmio privato, aggravato nel caso della Francia da una riduzione di quello pubblico». Crisi più che allarmante, «innescata in primo luogo da una perdita di competitività». Vero: la Francia non è la Grecia, «ma la differenza non è qualitativa, è solo quantitativa: e quindi la domanda non è “cosa succederà”, ma “quando”». Un po’ dopo, probabilmente. Per scacciare l’incubo, «qualcuno ha mandato il compagno Hollande a ripristinare la competitività, cioè a comprimere i salari, a garanzia dei creditori». Possibile? «Scaricate dal suo sito, se c’è ancora, il suo programma: e poi vediamo come lo attua».

Rigore, anche l’Onu ci boccia: sofferenze inutili e dannose

                                                                               “Rigore” fa rima con recessione, anticamera della depressione. Specie nell’Europa meridionale, «nei paesi che hanno maggiormente cercato l’austerity», la situazione economica «ha continuato a peggiorare», facendo crollare l’occupazione. A parlare, testualmente, di “fallimento”, sono nientemeno che gli analisti delle Nazioni Unite. Una dura sentenza: le politiche fondate sui tagli selvaggi alla spesa sociale promossi dall’Europa guidata da Merkel e Sarkozy, cui ora – buon ultimo – si accoda anche Mario Monti, sono «incapaci di stimolare gli investimenti privati». Per gli economisti dell’Ilo, l’International Labour Organization dell’Onu, nel corso del 2012 il numero dei disoccupati nel mondo aumenterà ancora, raggiungendo la cifra di 202 milioni di persone contro i 196 attuali. Il problema principale: accesso al lavoro sempre più difficile, per i giovani.
«In Italia – scrive Matteo Cavallito sul “Fatto Quotidiano” – nell’ultimo trimestre 2011 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 9,7%», cioè il livello Juan Somavìa, direttore generale dell'Ilopiù alto dal 2001. «Il tasso reale, tuttavia, potrebbe essere più alto considerando anche i 250.000 lavoratori in cassa integrazione». Dati impietosi, un po’ ovunque, forniti dal dipartimento dell’Onu diretto dal cileno Juan Somavìa: «Dal 2008 ad oggi, in pratica, la crisi ha bruciato da sola circa 50 milioni di posti dilavoro che mancano ancora all’appello». E nei prossimi due anni, continua Cavallito, almeno 80 milioni di giovani si affacceranno per la prima volta sul mercato dal lavoro ma, alle attuali condizioni di crescita, è assai improbabile che possano essere facilmente collocati. La situazione, precisa il report delle Nazioni Unite, è particolarmente preoccupante inEuropa, «dove dal 2010 la disoccupazione è aumentata in due terzi dei Paesi», anche se l’assenza di lavoro non manca di colpire Usa e Giappone, nonché Africa e paesi arabi. Una malattia che sta diventando cronica: «I disoccupati di lungo periodo sono a rischio di esclusione dal mercato del lavoro, il che significa che potrebbero non essere in grado di ritrovare un nuovo impiego nemmeno nel caso di una forte ripresa economica».
A far riflettere, inoltre, c’è il tema della qualità del lavoro. Mentre nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo il peso degli impieghi informali continua ad essere piuttosto evidente, nelle economie avanzate continua ad aumentare il lavoro temporaneo e precario che interessa soprattutto i giovani e le donne. E qui, sottolinea il “Fatto”, si torna al fallimento delle politiche anti-crisi, visto che in Europa la situazione sembra riguardare soprattutto le cosiddette periferie. In Grecia, Italia e Spagna, la sotto-occupazione dei part-time non volontari raggiunge il 50%, mentre in Grecia, Spagna e Portogallo il tasso di lavoro temporaneo ha ormai raggiunto l’80%”. In sostanza, in alcune nazioni europee, tra cui l’Italia, «il livello diMonti e Merkeloccupazione non è migliorato, mentre il lavoro precario è in realtà aumentato», alla faccia del vecchio adagio “più flessibilità uguale più occupazione”.
Dal 2008 al 2012, continua Cavallito, 40 paesi (su 131 presi in esame) hanno modificato la propria legislazione sul lavoro: nella maggioranza dei casi, il 60%, queste “riforme strutturali” non hanno fatto altro che colpire i lavoratori, riducendo la protezione dell’impiego per i dipendenti a tempo indeterminato. E il peggio è che questa tendenza si aggrava nelle economie più forti, dove la percentuale di “peggioramento” sale al 76%. «Come a dire – osserva il “Fatto” – che tre nuovi provvedimenti su quattro hanno implicato un aumento della precarietà». In almeno 26 paesi, la percentuale dei lavoratori coperti da un contratto collettivo è diminuita regolarmente, dal 2000 al 2009. E il processo «ha subito un’accelerazione con l’avvio della crisi globale». I “suggerimenti” dello staff tecnico dell’Onu? Sono esattamente il contrario delle “ricette” prescritte da Bruxelles, Bce, Merkel e Monti: aumento dei salari minimi, miglior accesso al credito e investimenti pubblici per la protezione sociale del welfare. L’Europa dei tecnocrati sbaglia tutto: a dirlo, ora, è anche l’Onu