Finanziamenti collaterali
Da venerdì scorso la legge per tagliare il finanziamento pubblico ai
partiti esiste, ora si tratta di approvarla in Parlamento. Il percorso
probabilmente non sarà dei più semplici e qualche modifica al testo
varato dal Consiglio dei ministri è addirittura probabile. Al momento,
comunque, si punta ad abolire i finanziamenti gradualmente fra l'anno
prossimo e il 2017, sostituendoli a poco a poco con i contributi dei
privati, che godranno di sgravi fiscali variabili a seconda della
donazione (del 52% fra i 50 e i 5 mila euro e del 26% fino a un massimo
di 20 mila euro), ma a partire dal 2016.
Dalla stessa data, inoltre, sarà possibile destinare il due per mille
nella dichiarazione dei redditi ai partiti (per chi non vuole, allo
Stato), che potranno anche usufruire di spazi e servizi gratuiti o
scontati.
Ma prima ancora di entrare nel merito delle misure proposte e delle possibili correzioni, sorgono un paio di dubbi. Primo: era davvero questo uno dei primi interventi da mettere in cantiere con il "governo di servizio" guidato da Enrico Letta? Secondo: non c'è il rischio che la riforma consenta ai partiti maggiori di incassare lo stesso, danneggiando invece le formazioni minori o alternative?
In molti fanno notare che l'anomalia italiana non riguarda i finanziamenti in sé. Anzi, a livello puramente teorico, che lo Stato garantisca sostegno finanziario a chi si impegna in attività politiche è perfino un principio democratico, altrimenti questo diritto sarebbe esercitabile soltanto da chi può permetterselo. Uomini come Silvio Berlusconi, che vent'anni fa fondò in pochi mesi un partito personale, o semplicemente le forze politiche più ramificate e influenti, quelle in grado di ottenere un cospicuo appoggio non solo dai portafogli dei militanti, ma anche dalla pletora di lobby interessate a distribuire favori per poi riceverne. E' evidente che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe ben poche possibilità di successo.
Certo, la situazione attuale non è sostenibile. Ma il vero problema è altrove: ossia nella quantità dei fondi che sono stati distribuiti finora e soprattutto nelle modalità di assegnazione. Il punto è che nessun Lusi deve più comprarsi casa con i soldi pubblici, nessun Belsito deve più sgraffignare diamanti con i fondi che avrebbe dovuto dare alle sezioni.
Ma prima ancora di entrare nel merito delle misure proposte e delle possibili correzioni, sorgono un paio di dubbi. Primo: era davvero questo uno dei primi interventi da mettere in cantiere con il "governo di servizio" guidato da Enrico Letta? Secondo: non c'è il rischio che la riforma consenta ai partiti maggiori di incassare lo stesso, danneggiando invece le formazioni minori o alternative?
In molti fanno notare che l'anomalia italiana non riguarda i finanziamenti in sé. Anzi, a livello puramente teorico, che lo Stato garantisca sostegno finanziario a chi si impegna in attività politiche è perfino un principio democratico, altrimenti questo diritto sarebbe esercitabile soltanto da chi può permetterselo. Uomini come Silvio Berlusconi, che vent'anni fa fondò in pochi mesi un partito personale, o semplicemente le forze politiche più ramificate e influenti, quelle in grado di ottenere un cospicuo appoggio non solo dai portafogli dei militanti, ma anche dalla pletora di lobby interessate a distribuire favori per poi riceverne. E' evidente che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe ben poche possibilità di successo.
Certo, la situazione attuale non è sostenibile. Ma il vero problema è altrove: ossia nella quantità dei fondi che sono stati distribuiti finora e soprattutto nelle modalità di assegnazione. Il punto è che nessun Lusi deve più comprarsi casa con i soldi pubblici, nessun Belsito deve più sgraffignare diamanti con i fondi che avrebbe dovuto dare alle sezioni.
Fin qui sono mancati i controlli e le rendicontazioni, anche perché
la prassi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è sempre stata
viziata a monte: le risorse destinate ai partiti avrebbero dovuto essere
dei rimborsi sulla base di spese certificate, invece erano di fatto dei
finanziamenti (una pratica contro cui, peraltro, gli italiani avevano
espresso il proprio dissenso via referendum ormai un paio di decenni
fa). Ora la certificazione dei bilanci diventa obbligatoria, ed è questo
il passo avanti più importante.
Il secondo tema riguarda l'uguaglianza di trattamento garantita alle forze in campo. Il ddl approvato dal Consiglio dei Ministri prevede che per accedere a tutti i benefici previsti i partiti debbano avere uno statuto che preveda "requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna". Al di là della vaghezza di una simile formulazione (chi giudicherà questi "requisiti minimi"?) è inevitabile leggere nella postilla una chiara (e goffa) volontà di marginalizzare il Movimento 5 Stelle, che infatti ha già gridato allo scandalo.
Senza statuto non si potrà usufruire nemmeno della manna dal cielo prevista nel comma 2 dell'articolo 4 a proposito di quel famoso due per mille: "In caso di scelte non espresse - si legge nel testo - la quota di risorse disponibili, nei limiti di cui al comma 4, è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse". Il limite è di 61 milioni di euro e dovrebbe essere facilmente raggiungibile anche se la maggior parte dei contribuenti decidesse di devolvere i soldi allo Stato. Sembrerebbe poca cosa, se paragonata ai 160 milioni che i partiti si sono spartiti dopo le ultime elezioni. Peccato che, a quanto pare, i "limiti di cui al comma 4" facciano riferimento a una quota da incassare ogni anno.
Il secondo tema riguarda l'uguaglianza di trattamento garantita alle forze in campo. Il ddl approvato dal Consiglio dei Ministri prevede che per accedere a tutti i benefici previsti i partiti debbano avere uno statuto che preveda "requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna". Al di là della vaghezza di una simile formulazione (chi giudicherà questi "requisiti minimi"?) è inevitabile leggere nella postilla una chiara (e goffa) volontà di marginalizzare il Movimento 5 Stelle, che infatti ha già gridato allo scandalo.
Senza statuto non si potrà usufruire nemmeno della manna dal cielo prevista nel comma 2 dell'articolo 4 a proposito di quel famoso due per mille: "In caso di scelte non espresse - si legge nel testo - la quota di risorse disponibili, nei limiti di cui al comma 4, è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse". Il limite è di 61 milioni di euro e dovrebbe essere facilmente raggiungibile anche se la maggior parte dei contribuenti decidesse di devolvere i soldi allo Stato. Sembrerebbe poca cosa, se paragonata ai 160 milioni che i partiti si sono spartiti dopo le ultime elezioni. Peccato che, a quanto pare, i "limiti di cui al comma 4" facciano riferimento a una quota da incassare ogni anno.
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