Nessuno ce lo dice, ma se lo spread cala troppo sono guai
La buona notizia è che lo spread cala. Quindi pagheremo meno interessi sul debito pubblico e, a cascata, su tutto il resto, dal funding bancario fino ai mutui di casa.
La
brutta notizia è che lo spread cala. Quindi significa che vendiamo
sempre più titoli all’estero, allungando la corda che finirà con lo
strangolarci.
Il
fatto che il calo dello spread sia insieme una buona e una cattiva
notizia dovrebbe farci riflettere sul senso e il significato di ciò che
sta accadendo. Invece non succede. Viviamo nella condizione psicologica
dei malati terminali, che si contentano di guadagnare un giorno in più
di vita, ormai incapaci di immaginare un futuro.
Cominciamo
dalle buone notizie allora. Molti analisti addebitano, non senza
ragione, il calo degli spread su tutta l’eurozona alla rinnovata
disponibilità liquida delle banche giapponesi, alluvionate dalla BoJ (Bank of Japan) che, fra le altre cose, ha promesso il raddoppio della base monetaria entro il 2014.
Il
conto è presto fatto. Prendo a prestito a costo zero dalla BoJ, e
investo in Europa, dove posso spuntare un buon tasso decennale di almeno
il 4% se investo su titoli di Italia o Spagna, contando sul fatto che
sono troppo grandi per fallire e che quindi pagheranno i loro debiti,
pure a costo di strozzare la loro popolazione. Un ragionamento che molti
stanno facendo nel mondo. Le banche giapponesi hanno anche il vantaggio
che la BoJ dovrà (o almeno tenterà) di portare l’inflazione al 2%,
quindi il rendimento reale netto del loro investimento sarà persino
maggiore.
Portiamo
all’estremo la nostra buona notizia. Mettiamo per ipotesi che fra
Giappone, nuovo governo italiano, stabilità politica eccetera eccetera
il nostro spread arrivi a 100 punti. Anzi a 50. Ma pure a zero, tié:
problema risolto. Non si parlerà più dello spread, come non se ne
parlava fino a un paio di anni fa. Cosa succederà?
Niente
che non sia già successo. Un paper della Banca d’Italia uscito proprio
in questi giorni ricorda che fra il 1992 e il 1998 la media degli spread
con i bond tedeschi a 10 anni declinò da 200 a 24 punti. Dal 1999 in
poi, e grazie anche all’introduzione dell’euro, gli spread scesero
ulteriormente fino ad arrivare a una media di 16 punti intorno al 2007.
In pratica erano a zero, ecco perché non ne avevate mai sentito parlare.
Poi
la crisi di Lehman Brothers e il rientro dei capitali delle banche
tedesche e francese dai bond sovrani dei Piigs fecero arrivare gli
spread a 100 e cominciò la storia che conoscete bene.
Ma la questione è un’altra: cosa è successo in Europa e in Italia quando lo spread era felicemente ignorato?
Facile:
sono aumentati i debiti, in particolare quelli privati, mentre sul
versante del debito pubblico sono peggiorate esponenzialmente le
esposizioni verso l’estero dei paesi deboli, ossia le loro posizioni
nette.
In pratica nell’epoca degli spread bassi si sono messe le basi per l’epoca degli spread impazziti.
Vi sembra un paradosso? Eppure è così.
Veniamo alle
cattive notizie. Anche qui ci viene in aiuto l’ultima rilevazione della
Banca d’Italia sull’economia italiana resa nota pochi giorni fa. Nel
2009, quando la crisi iniziava a farsi sentire, la metà del nostro
debito pubblico era detenuto all’estero. Poi la paura del contagio
iniziò a provocare la crisi dello spread. L’estero vendeva debito
italiano o lo comprava solo a caro prezzo. Con la conseguenza che
nell’ultimo trimestre del 2011, all’apice della nostra crisi,
l’esposizione dell’estero sui nostri titoli di stato era scesa sotto il
40%.
Tale
situazione è proseguita fino a metà del 2012, quando, contestualmente
al raffreddamento degli spread, l’estero è tornato ad acquistare il
nostro debito. A fine 2012 non siamo ancora tornati al livello del 2009,
ma ci siamo vicini.
Alla
folla di coloro che sono contenti che gli investitori di mezzo mondo
sono tornati a comprare i nostri titoli è utile ricordare che ciò non fa
che peggiorare la nostra posizione netta. Quando un non residente
compra un titolo di stato italiano, infatti, nella bilancia dei
pagamenti viene segnato un afflusso finanziario, quindi un attivo, che
però tecnicamente è un debito. Il pagamento degli interessi al
prestatore finisce nelle partite correnti, che quindi registrano un
deflusso. Perciò un prestito di capitale dall’estero non fa che
peggiorare la nostra esposizione netta.
Se
guardiamo i dati di Bankitalia, infatti, vediamo che la nostra
posizione patrimoniale sull’estero migliora mano a mano che l’estero
smette di prestarci i soldi, a fine 2011 la posizione netta arriva al
23% del Pil, ma peggiora drasticamente quando gli spread calano,
arrivando quasi al 25% a fine 2012. Tutto si tiene, come si vede.
Per
farla semplice: dipendiamo sempre più dai prestiti esteri per pagare
gli stipendi e le pensioni. Con l’aggravante che i soldi delle nostre
tasse, che vanno ai prestatori esteri sotto forma di interessi pagati
sul debito, non svolgono alcun effetto macroeconomico in Italia.
Sono la vera spesa pubblica improduttiva.
Dovremmo essere contenti che i giapponesi e gli altri ci prestano i soldi?
Sì,
perché sennò non possiamo letteralmente sopravvivere. No, perché
cediamo, per ogni peggioramento della posizione netta, sovranità
politica.
Questo dilemma è la vera minaccia celata nel calo spread.
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