Tasse, effetto sgravi sull'Irpef: per i dipendenti niente imposta fino a 10.500 euro
Chi è in pensione paga più Irpef. La scelta del governo sembra chiara:
il riassetto dell’Irpef favorirà solo i lavoratori dipendenti. Se il
contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici medi e alti è
probabilmente destinato a restare un’idea di Carlo Cottarelli, il
riassetto dell’Irpef dunque favorirà solo i lavoratori dipendenti
lasciando invariata la situazione dei contribuenti che hanno redditi
previdenziali.
Una delle differenze più macroscopiche sarà con tutta probabilità la soglia di esenzione effettiva, la cosiddetta no tax area, che non è un limite fissato per legge ma un livello di fatto determinato dall’effetto delle detrazioni. Per i lavoratori dipendenti senza carichi di famiglia - grazie al maxi-sconto voluto dal governo - dovrebbe salire a circa 10.500 euro, dagli attuali poco più di 8.000 attuali, mentre per i pensionati resterebbe fissata a 7.500 euro. In caso di familiari a carico la soglia sarebbe più alta ma comunque differenziata. E la penalizzazione tributaria per chi ha lasciato il lavoro proseguirebbe ai livelli di reddito superiore, attenuandosi via via solo in prossimità della soglia dei 55 mila euro di reddito.
I calcoli sono forzatamente approssimati, visto che non esiste ancora uno schema certo di come sarà attuato il promesso sgravio medio di mille euro l’anno. Già con il sistema attualmente in vigore l’imposta dovuta dai pensionati, a parità di imponibile, è leggermente più alta. Prendendo per buona una delle ipotesi che circola in queste ore, cioè che la detrazione riservata ai lavoratori dipendenti (e solo quella) venga fortemente aumentata, partendo da una base di 2.400 euro l’anno (invece degli attuali 1.880), la distanza si amplierebbe però in modo notevole, arrivando a 1.200-1.300 euro l’anno per un imponibile Irpef di 20.000-25.000. Ma già a quota 10.000 euro il divario sarebbe più che evidente, con il dipendente che non deve niente al fisco e il pensionato chiamato invece a versare 732 euro, oltre alle addizionali che scattano solo nel caso in cui il tributo nazionale non sia nullo.
Sul piano teorico, la scelta di destinare tutte le risorse ai dipendenti è coerente con la volontà annunciata di ridurre il cuneo fiscale-contributivo, ossia la distanza tra il costo del lavoro pagato dall’azienda e la retribuzione netta su cui può contare il lavoratore. Se il peso di tasse e contributi è meno gravoso, lavorare diventa più conveniente. O almeno così dovrebbe essere. Ma la mossa annunciata mercoledì scorso dal presidente del Consiglio ha anche - e forse soprattutto - un’altra logica: quella di dare slancio ai consumi interni. E in questa chiave è meno logico distinguere tra contribuente e contribuente, a meno di supporre che il pensionato abbia una propensione al consumo minore di quella del lavoratore in attività.
La diversità di trattamento si potrebbe far sentire anche al momento della decisione di lasciare il lavoro per la pensione. L’elemento finanziario non è naturalmente l’unico preso in considerazione in questi casi, ma è un fatto che in particolare per i redditi medio-bassi lo schema Irpef delineato dal governo avrebbe l’effetto di ridurre di alcuni punti il tasso di sostituzione netto, ossia il rapporto tra l’ultima retribuzione percepita e il primo assegno previdenziale
Una delle differenze più macroscopiche sarà con tutta probabilità la soglia di esenzione effettiva, la cosiddetta no tax area, che non è un limite fissato per legge ma un livello di fatto determinato dall’effetto delle detrazioni. Per i lavoratori dipendenti senza carichi di famiglia - grazie al maxi-sconto voluto dal governo - dovrebbe salire a circa 10.500 euro, dagli attuali poco più di 8.000 attuali, mentre per i pensionati resterebbe fissata a 7.500 euro. In caso di familiari a carico la soglia sarebbe più alta ma comunque differenziata. E la penalizzazione tributaria per chi ha lasciato il lavoro proseguirebbe ai livelli di reddito superiore, attenuandosi via via solo in prossimità della soglia dei 55 mila euro di reddito.
I calcoli sono forzatamente approssimati, visto che non esiste ancora uno schema certo di come sarà attuato il promesso sgravio medio di mille euro l’anno. Già con il sistema attualmente in vigore l’imposta dovuta dai pensionati, a parità di imponibile, è leggermente più alta. Prendendo per buona una delle ipotesi che circola in queste ore, cioè che la detrazione riservata ai lavoratori dipendenti (e solo quella) venga fortemente aumentata, partendo da una base di 2.400 euro l’anno (invece degli attuali 1.880), la distanza si amplierebbe però in modo notevole, arrivando a 1.200-1.300 euro l’anno per un imponibile Irpef di 20.000-25.000. Ma già a quota 10.000 euro il divario sarebbe più che evidente, con il dipendente che non deve niente al fisco e il pensionato chiamato invece a versare 732 euro, oltre alle addizionali che scattano solo nel caso in cui il tributo nazionale non sia nullo.
Sul piano teorico, la scelta di destinare tutte le risorse ai dipendenti è coerente con la volontà annunciata di ridurre il cuneo fiscale-contributivo, ossia la distanza tra il costo del lavoro pagato dall’azienda e la retribuzione netta su cui può contare il lavoratore. Se il peso di tasse e contributi è meno gravoso, lavorare diventa più conveniente. O almeno così dovrebbe essere. Ma la mossa annunciata mercoledì scorso dal presidente del Consiglio ha anche - e forse soprattutto - un’altra logica: quella di dare slancio ai consumi interni. E in questa chiave è meno logico distinguere tra contribuente e contribuente, a meno di supporre che il pensionato abbia una propensione al consumo minore di quella del lavoratore in attività.
La diversità di trattamento si potrebbe far sentire anche al momento della decisione di lasciare il lavoro per la pensione. L’elemento finanziario non è naturalmente l’unico preso in considerazione in questi casi, ma è un fatto che in particolare per i redditi medio-bassi lo schema Irpef delineato dal governo avrebbe l’effetto di ridurre di alcuni punti il tasso di sostituzione netto, ossia il rapporto tra l’ultima retribuzione percepita e il primo assegno previdenziale
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