Letta incalza i partiti «Riforme entro 18 mesi»
Ce la mette tutta, Enrico Letta, quando sprona i partiti
spiegando che «questa è un’occasione unica per le riforme» e che
«l’astensionismo alle comunali è un segnale che la politica non può più
permettersi di ignorare». Ma la verità è che dopo quanto visto ieri in
Parlamento, la strada per modificare la seconda parte della Costituzione
sembra essersi fatta terribilmente in salita. Tra compromessi al
ribasso e spaccature nei partiti di maggioranza, infatti, l’idea che nei
18 mesi fissati dal premier come «dead line» per le riforme si arrivi a
un accordo univoco su riduzione dei parlamentari, addio al
bicameralismo perfetto, potenziamento dei poteri del premier e nuova
legge elettorale, appare quantomeno utopistica.
Ieri, nelle due Camere, era il giorno della
presentazione delle mozioni per avviare il processo riformativo. Alla
base del documento elaborato dagli «sherpa» di Pd, Pdl e centristi, la
composizione della commissione di 40 «saggi» che dovrà elaborare il
piano di modifiche costituzionali e sottoporlo al voto del Parlamento e
al referendum popolare. Nessun accenno ai contenuti, insomma. Per adesso
l’unico accordo faticosamente trovato è quello sul metodo.
In particolare, la mozione approvata a larga
maggioranza sia dalla Camera che dal Senato impegna il governo a
presentare al Parlamento, entro fine giugno, un disegno di legge
costituzionale che preveda una procedura straordinaria per le modifiche
costituzionali rispetto a quella stabilita dall’articolo 138 della
Carta. In particolare, il ddl dovrà istituire un comitato, composto da
20 senatori e 20 deputati (scelti proporzionalmente basandosi sui voti
conseguiti alle elezioni e non sui seggi, come richiesto dal Pdl). Il
comitato sarà presieduto dai presidenti delle commissioni per le
Riforme. Inoltre si sono stabiliti gli iter legislativi che dovranno
seguire i provvedimenti delle Commissioni, che passeranno sì in
Parlamento e saranno aperti agli emendamenti, ma dovranno al tempo
stesso contenere meccanismi per garantire la conclusione del percorso in
18 mesi. Infine, si è deciso di non indicare ancora nessuna modifica
alla legge elettorale, che andrà cambiata solo nel contesto più ampio
della riforma costituzionale.
«Siamo chiamati a dare seguito all’impegno
che abbiamo preso col Capo dello Stato», ha esordito Letta nel discorso
al Senato. «C’è un drammatico distacco dei cittadini dalla politica - ha
continuato - e il segnale che i cittadini italiani hanno dato è
inequivocabile. Questa è un’occasione unica per fare le riforme e non va
perduta». «Questo Paese - ha sottolineato il premier - non ha
istituzioni che lo rendono capace di decidere. Abbiamo la più bella
Costituzione, ma dobbiamo cambiarla perché oggi rispetto alle esigenze
della nostra società abbiamo bisogno di istituzioni che decidono più
democraticamente e rapidamente».
Ma il presidente del Consiglio ci tiene
innanzitutto a porre dei paletti temporali: «Qui non può cominicare un
percorso dai tempi indefiniti, sarebbe la cosa peggiore che potremmo
fare. Entro 18 mesi deve terminare tutto l’iter complesso». E se così
non fosse «ne trarremo le conseguenze» ammonisce Letta, lasciando
intendere che un fallimento significherebbe la fine del governo.
Ma sulla tempistica arriva già il distinguo
del ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello, per il quale «i 18
mesi decorreranno da quando il ddl costituzionale del governo sarà
approvato dal Parlamento, quindi presumibilmente a fine settembre». In
realtà, trattandosi di un provvedimento che modifica la Carta, il
disegno di legge del governo dovrà affrontare l’iter della doppia
«navetta» Camera-Senato a distanza di tre mesi. E quindi i tempi si
potrebbero allungare ulteriormente.
Quando basta, con una situazione politica
così instabile, per far passare ancora invano il treno delle riforme. È
il rischio denunciato da 43 parlamentari del Pd che, pur dando parere
favorevole alla mozione di maggioranza, ne portano alla luce i punti
critici. Il documento reca la firma, tra gli altri, di Rosy Bindi, Pippo
Civati, Laura Puppato e di alcuni prodiani e renziani. Vi si
sottolineano, in particolare, le perplessità sulla «deroga alla
procedura di revisione costituzionale» che «rappresenta un oggettivo
problema e un pericoloso precedente» e, soprattutto, sul pericolo che il
superamento del Porcellum venga rinviato «sine die», «in aperta
contraddizione col solenne impegno da tutti proclamato per la sua
cancellazione».
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