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lunedì 2 luglio 2012

LA MANO DELLO STATO


La mano che arraffa: quella dello stato 

Per poter valutare l’espansione senza precedenti che lo Stato democratico moderno ha registrato in Europa, è utile ricordare l’affinità storica tra due movimenti che emersero alla sua nascita: il liberalismo classico e l’anarchismo. Entrambi questi movimenti furono motivati dall’ipotesi, rivelatasi poi errata, che il mondo si stesse incamminando verso un’era di indebolimento dello Stato. Ma mentre il liberalismo propendeva per uno stato minimo che governasse i cittadini in modo quasi impercettibile, lasciando loro la libertà di condurre i loro affari in  santa pace, l’anarchismo, al contrario, auspicava la dissoluzione totale dello Stato.
Dietro questi due movimenti si celava una speranza tipica del Novecento europeo: che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarebbe ben presto giunto al capolinea. In un caso, ciò sarebbe originato dall’eliminazione della predazione parassitaria esercitata dalle classi improduttive, quali la nobiltà e il clero. Nell’altro caso, la chiave di volta era stata individuata nel processo di riorganizzazione delle tradizionali classi sociali, che si sarebbero costituite in piccoli gruppi autosufficienti. Ma la storia politica del ventesimo secolo, e non solamente nel corso delle sue derive totalitarie, si è dimostrata del tutto inclemente, tanto con il  liberalismo classico, quanto con l’anarchismo. Lo Stato moderno democratico a poco a poco si è trasformato nell’attuale “Stato debitore”: nel volgere di un secolo, il processo di metastasi ha dato luogo a un mostro colossale, un mostro che respira e sputa fuori i soldi.
Questa metamorfosi è stata la risultante, soprattutto, di un prodigioso allargamento della base imponibile, specie in forza dell’introduzione dell’imposta progressiva sul reddito. Questa imposta è l’equivalente funzionale dell’ espropriazione socialista. Ma capace di garantire, in più, il notevole vantaggio di essere reiterata di anno in anno, almeno in tutti i quei casi in il soggetto non risulti dissanguato dal salasso dell’anno precedente (Per avere un’idea della tolleranza dei cittadini del giorno d’oggi, basti ricordare che quando l’imposta sul reddito fu introdotta, per la prima volta,  in Inghilterra, con una pressione del 5 per cento, la regina Vittoria era seriamente preoccupata del fatto che ciò avrebbe rischiato di oltrepassare ogni limite tollerabile. Da quel giorno, ne è passata di acqua sotto i ponti: e siamo ormai assuefatti all’idea che una manciata di cittadini produttivi debba  necessariamente fornire, con le loro tasse, più della metà del gettito sul reddito nazionale).
Quando questo prelievo forzoso si combina con una lunga batteria di ulteriori tasse e imposte, che vanno ad incidere soprattutto sui consumatori, si origina un risultato sorprendente: ogni anno, gli Stati moderni rivendicano la metà dei proventi economici generati dalle loro classi produttive e li affidano in consegna agli esattori delle tasse. E ciononostante, queste classi produttive non tentano di rimediare alla loro situazione  ricorrendo alla sola reazione che appare come la più ovvia e naturale: una civile rivolta fiscale! Questa totale ed assoluta sottomissione si configura effettivamente, [per i governanti, ndt], come un formidabile successo politico, che avrebbe fatto cadere in deliquio  il ministro delle finanze di qualsiasi sovrano.
Rifacendoci a queste considerazioni, possiamo ben capire che la domanda che molti osservatori europei continuano a formulare durante l’attuale crisi economica – “il capitalismo ha un futuro?”, è del tutto mal riposta. In realtà, quello in cui ci tocca vivere non è affatto un  sistema capitalistico: ma è una forma di  ibrido semi-socialista che gli europei, con molto tatto, definiscono “economia sociale di mercato”. La mano avida dello Stato cede parte del bottino soprattutto per placare l’apparente interesse pubblico, finanziando attività inutili e prive di senso  in nome della “giustizia sociale”.
Così, lo sfruttamento diretto ed egoistico dell’epoca feudale è stato trasformato, nell’era moderna, in un  stato,  giuridicamente vincolato e quasi disinteressato, di totale cleptocrazia. Oggi, un ministro delle finanze è una sorta di Robin Hood che ha prestato fedeltà a un giuramento costituzionale. La capacità che caratterizza il Tesoro, di arraffare il bottino con la coscienza perfettamente pulita, è legittimata, tanto da un punto di vista teorico quanto nella pratica, dall’affidamento che si ripone nell’incontestabile utilità dello Stato nel mantenere la pace sociale, per non parlare di tutti gli altri vantaggi che si vuole esso fornisca (In tutto questo, la corruzione rimane un fattore del tutto irrisorio… Per comprovare quello che sto dicendo, basti solo pensare alla situazione della Russia post-comunista, dove un ordinario uomo dell’establishment, come Vladimir Putin, è stato in grado, nei pochi anni in cui è stato Capo di Stato, di accumulare una fortuna personale di oltre  20 miliardi di dollari). Gli osservatori favorevoli al  libero mercato fanno sicuramente bene, dal canto loro, a richiamare l’attenzione su una serie di pericoli ben precisi: sia che si sostanzino in una eccessiva regolamentazione, suscettibile di inibire l’afflato imprenditoriale; ovvero, in una imposizione fiscale fuori controllo, che punisce il successo; o, ancora, in un debito ipertrofico, che è la conseguenza di un rigore di bilancio che ha ceduto il passo alla leggerezza speculativa.
I sostenitori del libero mercato non hanno inoltre mancato di osservare come l’attuale stato delle cose determini il sovvertimento del concetto stesso di “sfruttamento”. In precedenza, i ricchi vivevano a spese dei poveri, in via del tutto diretta ed inequivocabile. Nelle economie moderne, invece, sono sempre più i cittadini improduttivi a vivere parassitariamente alle spalle di quelli produttivi, ancorché lo facciano in maniera del tutto equivoca, posto che, come si dice e si reputa, essi sono svantaggiati ed in virtù di questo meriterebbero un sostegno ancor maggiore. Ai giorni nostri, di fatto, una buona metà della popolazione di ogni nazione moderna è costituita da persone che, disponendo di un reddito scarso se non nullo, sono esenti da qualsiasi obbligo fiscale, e vivono, in larga misura, a scapito dell’altra metà della popolazione, che al contrario paga le tasse. Se tale situazione dovesse radicalizzarsi, ciò potrebbe sicuramente  dar luogo ad estesi conflitti sociali. Questa tesi, eminentemente plausibile, dello sfruttamento da parte dei ceti improduttivi, elaborata dai fautori del libero mercato, avrebbe poi prevalso sulla omologa tesi di matrice socialista, di sicuro molto meno convincente, che ravvisava lo sfruttamento dei lavoratori ad opera dei capitalisti. L’affermarsi di questa rivoluzione concettuale recherebbe con sé l’avvento di un’era post-democratica.
Allo stato attuale, il pericolo principale per la futura tenuta del sistema coinvolge il crescente indebitamento degli Stati, intossicati dal proliferare delle politiche keynesiane. In maniera del tutto impercettibile, ma ormai del tutto inevitabile, ci stiamo dirigendo verso una situazione in cui, ancora una volta, i debitori potranno espropriare i loro creditori, come è purtroppo sovente accaduto nel corso della storia della tassazione, dall’epoca dei faraoni, alle riforme monetarie del ventesimo secolo. La novità è data dalla scala gigantesca del debito pubblico. Non importa le spoglie sotto cui formalmente si presenteranno – se come garanzia, insolvenza,  riforma monetaria, o inflazione – ma i prossimi grandi espropri sono già in corso d’opera. Oggi, la mano avida dello Stato si è già insinuata nelle tasche delle generazioni di coloro che devono ancora venire al mondo. Abbiamo già scritto il titolo del prossimo capitolo della nostra storia: “il saccheggio del futuro da parte del presente”.

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